Un futuro tutto da scrivere

Ospitiamo un articolo di Valentina Carli

Essere giovani, oggi, è molto più difficile di un quarto di secolo fa.

Certo, ora ci sono internet e le infinite possibilità di una comunicazione rapidissima e senza confini. Ci si sposta di più, e con maggiore facilità – Covid permettendo – molto è stato fatto per raggiungere la parità di genere e si vedono tante più donne occupare posizioni di potere, rispetto al passato.

Tuttavia, molto rimane ancora da fare e, sotto certi profili, si assiste addirittura a un peggioramento della situazione della donna.

Un tempo, l’offerta formativa era varia, specifica e, soprattutto, chiara.

Per chi non era interessato a studiare, e decideva di iniziare a lavorare a quattordici anni, le opzioni erano concrete e accettabili. Le scuole elementari e le medie erano ottime, e quando ne uscivi eri alfabetizzato e attrezzato per affrontare la vita.

Oggi, si legge con sgomento di laureati incapaci di decrittare un testo scritto, o di produrre un elaborato privo di errori grammaticali. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in una scuola che deprime i docenti e non forma gli studenti.  

Tra istituti professionali, tecnici e licei, noi boomers potevamo decidere se e quanto restare sui libri, e chi tentava l’avventura universitaria forse non aveva millemila facoltà tra le quali spaziare con la fantasia, ma quando ne usciva, quel che stringeva nel pugno non era un inutile pezzo di carta, ma una laurea universalmente rispettata, grazie alla quale avevi accesso a una carriera dignitosa e garantita.

Oggi, all’enorme ventaglio di offerte proposte allo studente, corrisponde una deprimente pochezza, quando si tratta di usare il diploma ottenuto per trovare un impiego decente.

Anche il più prestigioso corso di laurea, infatti, non ti fornisce più alcuna garanzia in tal senso e se davvero ci tieni, molto spesso sei costretto a prendere la valigia e andare in capo al mondo, a caccia di un’occasione che, soprattutto in Italia, ai giovani viene negata.

I cervelli non in fuga si vedono costretti a subire uno sfruttamento ignobile, mascherato da contratto a progetto, o da contratto di apprendistato, che apprendistato non è. Ti assumono pagandoti una pipa di tabacco, ti tengono sulla corda per due anni, al terzo tiri il fiato, ma non del tutto, e nel frattempo lavori per tre, con un tutor tale solo sulla carta, nella realtà più evanescente di uno spettro, e gente molto concreta al tuo seguito, alla quale devi dare istruzioni. Gli apprendisti, nelle aziende italiane, non di rado sono capi fantasma, pagati come ragazzi di bottega. I quali, una volta assunti, partiranno dal più basso gradino retributivo, nonostante svolgano mansioni di responsabilità ormai da anni.

Ecco spiegato il perché le ragazze non facciano figli prima di non essere più tali, i giovani fatichino a metter su famiglia, e la next generation EU minacci di diventare la last generation EU. Perché se anche per fare la maestra elementare o l’infermiera devi prenderti un paio di lauree – la famigerata 3 + 2, che in barba alla matematica fa quasi sempre 6, quand’anche non 7 – prima dei 26 anni, tra una cosa e l’altra, non ne sei fuori.

La cosa non sorprende, del resto, dato che i professori, all’università, fanno quello che gli pare, decidendo di testa loro programmi, esami, appelli e criteri di valutazione. Alcuni di loro sfogano le proprie frustrazioni bocciando la maggioranza dei candidati in cinque minuti ciascuno, più e più volte di seguito, facendo di qualche esame una roulette russa tanto folle, da far sì che gli Italiani siano i laureati più anziani del globo terracqueo.

O i nostri figli si sono tutti rincretiniti, o nel sistema c’è qualcosa che non quadra. Se, a dispetto di tutte le difficoltà, arrivi ad agguantare l’ambito diploma, prima di avere un lavoro sicuro e pagato il giusto, quindi, devi calcolare un altro quinquennio.

Ed eccoti qui, a trent’anni e rotti, con l’orologio biologico che ticchetta e la nonna che ti fissa perplessa, scuotendo la testa, disperando di vederti finalmente sistemata. Già, sistemata. È proprio la parola giusta.

Ammesso e non concesso che trovi la combine adatta, e che questa persona sia disposta a condividere con te anche gli oneri, oltre agli onori della vita di coppia e della genitorialità, prima di lanciarti nella mischia dovrai passare svariati altri esami.

Dal direttore di banca che prima di darvi il mutuo per la casa vuole anche la tua colposcopia, al direttore del nido che accetta solo solventi, perché quello comunale non c’è, e quando c’è dista quattro parsec dall’unico quartiere che ti puoi permettere, per finire con la reazione del tuo capo, il quale, all’atto dell’assunzione, ha fissato con nauseata intenzione la fede al tuo anulare, ci vuole del coraggio, per lanciarsi nell’impresa della riproduzione.

Ma tu sei una donna indomita, e non ti arrendi. Sperando che la natura, irritata dalla lunga attesa, non ti punisca facendoti penare per concepire un figlio, diciamo che ce la fai. La doppia riga sul test ti rivela la futura maternità.

E qui iniziano i guai.  

Una donna incinta ha la sgradevole sensazione, se dipendente, di creare un problema alla struttura presso la quale lavora, mentre se è una lavoratrice autonoma, sarà costretta a lavorare fino alla prima mezz’ora di doglie, per ritornare sul pezzo non appena il pupo avrà emesso il suo primo vagito. Quanto alle collaboratrici a progetto, il progetto di un figlio non è contemplato: alla notizia “sono in attesa”, segue un definitivo “a mai più rivederci. Grazie, è stato bello finché è durato”.

In un modo o nell’altro, questa società te lo farà scontare, l’azzardo di esserti voluta riprodurre.

Quando sei mamma, hai diritto a prenderti del tempo per te e per il tuo bambino, ma di certo questo si ripercuoterà sulla tua carriera, a meno che tu non abbia l’enorme fortuna di essere capitata in una struttura enorme, in grado di sostenere e persino supportare la maternità delle sue giovani collaboratrici. Ma una fortuna così capita a troppo poche tra noi.

La maggior parte sentirà il peso del giudizio sul lavoro – è sempre a casa con la bertuccia! – e a casa – non lo calcoli proprio tuo figlio, eh? – rischiando di perdere la serenità in quella che sembra un’impossibile quadratura del cerchio: conciliare il lavoro con la maternità.  

In tutto questo, gli uomini sono indecisi a tutto, quando si tratta di pupi. Noi soffriamo per i sensi di colpa, loro per il mobbing, a causa del quale gli sembra di sbagliare qualsiasi cosa facciano. Se prendono l’allattamento in ufficio se li mangiano, se collaborano con la compagna i loro padri li guardano come alieni, le madri come vittime, mentre le mogli li guardano male, perché come fai a non capire da che parte si mette il Pampers?!

Nessuno si sente a proprio agio, schiacciato da un eccesso di aspettative e abbandonato a sé stesso da un sistema creato per produrre a discapito del singolo, invece di investire sul supporto del singolo, nell’interesse dell’intera società. Una società di nonni non ha futuro. Sarebbe il caso di non dimenticarlo.

A tal proposito, i genitori/nonni, schiacciati tra un lavoro che non potranno lasciare fino a quasi settant’anni e genitori anzianissimi ai quali badare, anche qui per la scarsità di strutture adeguate, non si potranno offrire per più di un baby-sitting sporadico, poco incisivo e per nulla determinante.   

Tutto ciò detto, c’è poco da sorprendersi se, al posto di un bipede glabro impossibile da delegare, molte donne selezioneranno un quadrupede peloso da amare. Non di rado preferendolo anche a un compagno, ancora troppo poco evoluto per supportare la versione 2.0 delle giovani donne di oggi.

Intelligenti, determinate e pienamente coscienti dei propri diritti. Di qualsiasi contesto si parli.

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