DONNE CHE PENSANO – Intervista ad Irene Renei

In questo periodo denso di cambiamenti, preoccupazioni e movimenti sociali che vedono protagonista l’universo femminile, ho voluto fare quattro chiacchere con Irene Renei, autrice del blog “Donne che pensano“, per ascoltare il suo punto di vista sempre lucido sulla realtà.

Ma parliamo prima di te Irene, chi sei?

Difficile parlare di me stessa. Mettere nero su bianco una vita è un affare complesso.

La percezione di me stessa è cambiata con gli anni. Ora, a cinquanta, forse ( e dico forse) credo di sapere quante donne ho dentro di me.

Più di tutto credo di essere madre. Madre del mondo. Dei miei figli, sì, ma anche dei miei cani, gatti, madre delle mie amiche, madre di mia madre.

Ho questo forte senso di accudimento che mi appaga come poco altro.

Cosa ti ha spinto a cominciare a scrivere?

Credo che questa sorta di onde di bene che sento dentro siano state uno dei motivi principali che mi hanno spinto a scrivere.

Avevo fortemente bisogno di condividere, di divulgare, in un certo senso, sentimenti buoni.

I limiti di questa parte materna sono tanti però.

In primis mi hanno sempre impedito di realizzarmi nel lavoro.

Il tempo lontano dai miei figli, il continuo delegare agli altri la loro quotidianità, in una società che trascura la famiglia e i suoi bisogni, mi ha sempre imbrigliato in una sorta di infelicità.

Altro grande limite, anche questo in parte frutto di una società patriarcale che chiede alla donna il sangue, è sempre stato il voler essere iper performante. Avere la presunzione di voler fare tutto al massimo delle mie capacità: sul lavoro, in casa, con i figli.

Questo mi ha sfiancato mentalmente, mi ha succhiato energie per molti anni e quando le energie davvero mi sarebbero servite, ne avevo finito la scorta.

La svolta nel 2019, in piena adolescenza di mia figlia, la mia secondogenita.

Nel suo primo anno di superiori e di furiosa ribellione adolescenziale sono crollata, pervasa da un senso di inadeguatezza grande come un oceano che mi vedeva affogare.

Mi sono guardata allo specchio e in un moto di sopravvivenza ed egoismo ho deciso di pensare a me stessa, dopo quanti anni? Non ricordo. Da tantissimi, troppi anni non pensavo solo a me.

Mi sono appoggiata ad una psicologa che ha accolto e coccolato il mio mare di punti interrogativi sulla vita e come una bambina che impara a camminare ho provato a lasciare la sua mano e a muovere i primi passi.

Ho iniziato a fare volontariato in una comunità di accoglienza per madri vittime di violenza. Madri e figli con valigie piene di dolori e storie pesanti.

Io iniziato a prendermi cura di loro. Almeno credevo. Loro in realtà curavano me.

Mi infondevano vitamine di forza e voglia di lanciarmi contro le ingiustizie sociali, di proteggere il ruolo delle donne, di tutte, dalle più fragili a quelle che apparentemente hanno una vita normale.

“Normale” come la vita di tutte noi…

Un gran casino in cui troppo spesso nessuno ci aiuta.

Ho aperto una pagina Facebook per il bisogno impellente di svuotare cuore e pensieri e capire se tutto questo mio sentire era solo mio o poteva essere condiviso.

Ad oggi sulla mia pagina “Donne che pensano” siamo 34. 000 anime a darci il buongiorno.

Dalla comunità sono uscita fisicamente per colpa del lockdown di Marzo 2020 ma mi sono portata dietro, anzi affianco, per mano, una madre con i suoi tre figli. Tecnicamente è un affido diurno.

Noi gestiamo la vita dei bambini durante il giorno e li portiamo da lei la sera quando rientra dal lavoro.

In realtà ti prendi cura di tutti, anche di lei.

Nel frattempo mia figlia, mio figlio e mio marito avevano iniziato a seguirmi all’interno di quella casa comunità che pare avere i mattoni impastati di dolore e amore, una magia strana che ti tiene incollata a loro e non ti permette più di far finta di niente.

Il mio libro è permeato delle loro storie, della mia storia, di tutti i sentimenti che ci portiamo dietro, noi donne tutte, nella vita normale e di fronte ai problemi.

Ho un grande progetto, nel libro ne parlo.

Voglio creare una libreria che sia spazio per queste donne messe al margine da una società che ti sprona a denunciare e poi spesso ti abbandona.

Voglio vederle tra i libri, ad aiutarmi ad organizzare eventi, voglio vederle in un ruolo dignitoso, masticare parole nuove che permettano loro un giorno di saper leggere con attenzione un contratto che potranno trovarsi a firmare.

Voglio che non si sentano sole e che imparino a capire quanto valore hanno e quante poche colpe.

Credo fortemente nella potenza delle donne quando trovano la chiave per unirsi. Credo che insieme si possano fare grandi cose e sradicare l’enorme quercia di questa società patriarcale, così radicata anche in noi da tenerci nell’ombra.

Spero di trascinare con me in questo progetto donne di ogni classe sociale, perché ognuna col suo bagaglio è un tassello prezioso.

Spero di far cadere una goccia in ogni anima che leggerà il mio libro [“Dieci tazze a colazione” ndr], che porti a capire che se qualcosa chiediamo a questa società, dobbiamo prima essere in grado di dare. Lo Stato siamo noi.

Io, a questo dare, ho dato la forma dell’affido familiare che ritengo un’emergenza assoluta.

Servono nuclei familiari disposti ad accogliere, a sostenere, a fare da ponte nel tempo in cui la famiglia di origine ha bisogno di risanarsi. Difficile spiegare in poche parole.

Più dai e più ti rendi conto che puoi fare di più, che serve di più.

Ma quando il fine è così grande la fatica non la senti e ti perdoni gli errori lungo la strada.

Diventi soprattutto esempio inconsapevole per i tuoi figli.

Almeno, io così ho ritrovato la strada nel cuore di mia figlia che stava girovagando per strade sbagliate.

Ho pensato a me e sono improvvisamente diventata un faro che ha illuminato la sua strada.

I figli non hanno bisogno di tempo, o quanto meno non solo e non di tutto il tempo, come pensavo quando il lavoro mi teneva fuori giornate intere. I figli hanno bisogno di input, di esempi e di amore.

In questo momento così difficile per la società quale può essere il ruolo delle donne per la pace?

Si chiede sempre tanto alle donne, forse troppo. E forse non c’è neanche bisogno di chiedere perché le donne fanno.

Nei mesi scorsi abbiamo assistito all’arrivo delle donne ucraine con i loro figli, un borsone sulle spalle e una vita e affetti lasciati al di là del confine.

Oggi assistiamo con dolore a ciò che succede in Iran, dopo la morte di Masha Amini… le donne ci provano a cambiare il mondo ma devono iniziare sempre dal basso perché il nostro è ancora il mondo degli uomini. Cosa possiamo fare per la pace se siamo sempre fuori dalle stanze in cui si decide? Possiamo fare poco e quel poco lo facciamo già e dobbiamo continuare a farlo.

Credo nelle nuove generazioni e non parlo solo delle giovani donne, ma anche dei nuovi uomini.

Credo che siano molto diversi da noi, che abbiano molto da insegnarci e che forse, nonostante il disastro che gli stiamo lasciando tra le mani, possano creare un mondo umanamente migliore.

Credo si debba insegnare ai nostri figli il valore dell’accoglienza e dell’uguaglianza. Alle nostre figlie, il potente valore della sorellanza, il dovere morale della condivisione dei problemi della donna accanto.

La pace si costruisce insieme, uomini e donne, con la volontà di entrambi.

Altrimenti andremo poco lontano

Irene Renei autrice del blog “Donne che pensano” e di “Dieci tazze a colazione” ed. AltreVoci

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