LODE ALL’INDIGN*AZIONE

L’ultimo mese è stato particolarmente ricco di occasioni per chi desiderasse esprimere un’opinione, un veto o si sentisse chiamato a dare il proprio endorsement (pokerface! N.d.A).

Tra i Ferragnez, Rosa Chemical, la Francini, Shakira, Harry, la Carlucci, Madame e altri, il popolo dei social e degli opinion show ha avuto davvero un bel da fare. E’ noto che dagli anni ’90 la comunicazione dei mass media cerca la polarizzazione, persegue il contrapporre un pensiero all’altro spingendo il pubblico a schierarsi, fornendo già due idee faziose a cui uniformarsi, negandoci la grande libertà che una placida narrazione dei fatti ci avrebbe concesso, nonché il tempo di far sedimentare i nostri pensieri generando magari altre idee.

Un commento positivo genera un tam tam dieci volte inferiore a uno negativo, lo conferma una recente ricerca di Yale sui social media che ha scoperto che i like, le condivisioni e i retweet non fanno altro che aumentare il risentimento spingendo altri utenti a reagire e amplificando di conseguenza il risentimento stesso. Pensateci un attimo, se scorrendo la home notiamo una bella notizia, una frase illuminante o un’immagine coinvolgente non proviamo l’irrefrenabile impulso di mettere un like o di commentare “Che bella!”, certo possiamo farlo ma senza avvertire un’intensa emozione. Se invece incontriamo un commento al vetriolo che riguarda un argomento sul quale sentiamo di avere una nostra opinione, la voglia di rispondere diventa davvero irrefrenabile, “ci prudono le mani” e per non farlo dobbiamo esercitare un certo grado di autocontrollo.

In questo flusso ininterrotto di opinioni spicca un sentimento condiviso da tutte e tre le fazioni, i favorevoli, i contrari e gli ignavi che criticano chi si schiera, questo sentimento è costituito da un misto di sdegno, risentimento, disgusto, disprezzo e rabbia nei confronti di persone o comportamenti, individuali o generalizzati, che sono considerati riprovevoli perché ritenuti offensivi in sé o nei confronti del proprio senso morale (più che offensivi nei confronti della propria persona): ecco a voi l’Indignazione, vissuta e usata però in modo veloce, intenso ma passeggero. Il nostro mondo stesso è veloce, fluido, impermanente e così sono diventate le nostre interazioni e in qualche modo il nostro sentire, non ci concediamo il tempo di creare passione.

“L’indignato social*e”, specie molto diffusa, prova un’emozione che si avvicina alla collera, tramite la quale esprime disapprovazione per un’azione biasimevole che avverte come violazione del proprio sistema di credenze e implicitamente come abuso nei confronti della propria identità. Dovrebbe in realtà essere generalmente percepita come negativa al pari della rabbia, eppure questa brutta rabbiosa affezione in realtà è calda, inclusiva, appagante, semplifica tutto: di qui noi, di là loro, la storia diventa narrata a colpi di buoni o cattivi. Tutto viene ridotto in categorie semplificate, tanto da essere semplici argomenti d’intrattenimento attraverso cui “l’indignato social*e” articola un esercizio simil-intellettuale fine a se stesso. Questa forma di indignazione non sfiora ciò che potrebbe cambierà la nostra società, perché indignarci per qualcosa che lì per lì ci pare enorme e insopportabile e che il momento dopo abbiamo già dimenticato e rimpiazzato nulla ha a che vedere con il cambiamento. Avere l’opportunità attraverso i social di esternare la propria disapprovazione rispetto a un argomento appaga l’imperativo sociale alla partecipazione, ma di sociale, a parte la gogna mediatica, non ha veramente nulla, non è un ponte tra noi e gli altri ma al contrario è la cementificazione del nostro solitario individualismo, dove pensiamo di avere ragione e ciò ci basta in considerazione del fatto che altri la pensano come noi, ma senza condividere, creare aggregazione. Inoltre usiamo questo flusso continuo di indignazione per illuderci di stare comunque facendo qualcosa di significativo, avendo dato voce alla nostra idea di giustizia.

Sant’Agostino scriveva: “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”.

L’indignazione di cui abbiamo bisogno dovrebbe essere quel sentimento che precede la rabbia e la dirige in azioni pratiche di mobilitazione e resistenza civile. Dovrebbe rappresentare quell’intenzione di organizzarsi per cambiare le cose, braccio armato di quella speranza che il mondo può migliorare, che non è del tutto perduto. Insomma dovrebbe spingerci a mettere in atto piccoli gesti quotidiani che concretamente porteranno a una società migliore.

L’indignazione in sé, seppur sia una forza morale potentissima, non produce cambiamento e non stimola all’azione se non viene equipaggiata da una sensibile conoscenza che ci consenta di prendere consapevolezza dei meccanismi che producono l’ingiustizia e impoveriscono le basi etiche della nostra vita in quanto esseri umani parte di un ecosistema sociale.

E’ questo che manca all’”indignato socia*le”: trasformare l’indignazione in azione, darsi il tempo di conoscere, rielaborare, rendere reale quest’indignazione portandola via dalla tastiera nella realtà prima che evapori.

L’effimera indignazione social*e così ci affonderà, mentre distratti saremo sacrificati… ma io nutro ancora speranza di salvarci con l’indign*azione.

25 NOVEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE E DI GENERE.

in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne e di genere ho intervistato Antonio Lidonnici.

Il suo libro mi è stato consigliato da un’amica, parla di violenza nella coppia ed è tratto da una storia vera. E’ una tematica forte che non è semplice affrontare ma Antonio è riuscito a farlo con una scrittura senza fronzoli, lineare, scevra da qualsiasi sensazionalismo, per certi versi cruda ma terribilmente efficace.

Ci è sembrato giusto in questo giorno, dedicargli questo spazio, in modo che le sue parole, il suo libro possano toccare anche voi.

Buongiorno Antonio grazie per il tuo tempo e per la disponibilità.

Allora siamo qui per parlare del tuo libro d’esordio L’OMBRA DEL GLICINE edito da Edizioni Effetto ma prima vorrei parlare di te. Ti autodefinisci come uno scrittore incallito ci vuoi spiegare perchè?

Buongiorno. Intanto vorrei ringraziare te e tutto il gruppo per questo spazio. Mi ritengo “incallito” nel senso di “irriducibile”: quando non hai il dono della sintesi e sei anche discretamente impulsivo, l’unico modo per non perdersi in voli pindarici rimane mettere per iscritto ciò che si vuole dire.

Come potresti definire il tuo stile?

Qualcuno l’ha definito “arido”, e devo dire che mi ci ritrovo perfettamente; non mi piace entrare troppo nell’intimità dei miei personaggi, nei loro pensieri. Al contrario, preferisco accompagnare il lettore sulla soglia e lasciare che sia lui a decidere se e quanto entrare nei mondi che racconto. Dal punto di vista tecnico, uno dei miei riferimenti è infatti Carver, un autore capace di essere tagliente e preciso come un bisturi.

Hai dichiarato che se dovessi incontrare un autore nei carruggi sceglieresti Donato Carrisi, ti sei ispirato anche a lui per scrivere il tuo romanzo?

Donato Carrisi rappresenta, insieme a Carver e Edgar Allan Poe, il mondo a cui faccio riferimento quando scrivo. Per rispondere alla tua domanda, ti dirò che sì, nei punti in cui mi serviva tenere alta la tensione, una ripassatina ai testi di Carrisi l’ho fatta, anche più di una volta.

Arriviamo all’OMBRA DEL GLICINE, so che il tuo libro è ispirato a una storia vera, narra la relazione tra Claudia, una giovane di 26 anni che attraversa un periodo di profonda crisi personale dopo il suicidio del padre e Alfio un carismatico, affascinante ma misterioso quarantenne. La scelta di ambientarlo a Genova è frutto del tuo amore per il nostro territorio o è stata determinata da altri fattori?

La scelta è stata determinata da più di un fattore.

Prima di tutto, perché la conformazione del territorio genovese (e ligure), a mio parere, si presta meglio di qualsiasi altra città italiana a determinate narrazioni: la velocità con cui si passa dal mare ai monti, dalle vie dello shopping ai carruggi maleodoranti, è una caratteristica squisitamente ligure. Non fai in tempo ad abituarti alla bellezza di Palazzo Ducale che vieni “risucchiato” dalle ombre che risalgono dal vicolo accanto. Ecco, questa commistione di bellezza e mistero, di luci e ombre, secondo me rendono Genova la città ideale per ambientarci un romanzo come il mio, o un giallo in generale.

In secondo luogo, Genova è una città portuale, e come tutte le città di questo tipo, sono fortemente contaminate da tutte le culture che vi transitano e, secondo me, anche i genovesi stessi in qualche modo vengono sfiorati da questi cambiamenti.

In ultimo, ma non per importanza, perché la storia di Claudia affonda le sue radici proprio nel territorio ligure: in questo senso, la scelta è dipesa dalla volontà di ripagare il mio debito di riconoscenza nei confronti della protagonista, e della città stessa, che mi hanno permesso di mettere gli occhi e le mani su questa vicenda.

La tua scrittura è stata definita cinematografica, e concordo in pieno con questa definizione, il tuo stile è caratterizzato da descrizioni di luoghi, persone e dialoghi estremamente scorrevoli, proprio come un filmato, mi ha colpito in particolare la tua capacità di essere estremamente descrittivo senza però cadere in descrizioni dettagliate, minuziose e lunghe delle scene che narri, che comunque ti obbligano, da lettore a visualizzare mentalmente quello che leggi. Alcuni passaggi sono molto crudi e proprio in virtù di questa tua dote il lettore è costretto a vedere nella mente scene che potrebbero essere disturbanti. La violenza secondo te purtroppo va anche descritta oltre che raccontata per arrivare davvero a toccare l’animo dei lettori?

Credo che, soprattutto quando si parla di violenza di genere, i fatti vadano narrati nella loro integrità. E questo non “sciacallaggio”, ma perché la sottovalutazione del tema credo fortemente dipenda proprio da una sorta di edulcorazione dei fatti, che spesso conduce poi a una distorsione degli accadimenti per sfociare in un ridimensionamento delle responsabilità. La famosa frase “… ma lei se l’è cercata” è frutto di una distorsione nella percezione dei fatti da parte di chi legge. Per questo motivo, io ho scelto di riportare determinate scene nella loro integrità, ovviamente con la piena approvazione della protagonista. Mettere nero su bianco gli accadimenti, come hai detto bene tu, “costringe” il lettore a vedere la scena, a vedere il quadro in ogni sua pennellata, senza interpretazioni da parte di esperti, o sedicenti tali.

Per essere efficaci e “arrivare” al lettore, non servono tante parole, ma parole giuste.

Torniamo alla tua storia, la relazione tra i protagonisti  parte come una favola, Alfio è un principe azzurro che porta Claudia in un castello dorato fatto di attenzioni, regali, amore, viaggi e sorprese ma che si trasforma in breve tempo in una prigione di isolamento, manipolazione, coercizione e infine violenza fisica. Quanto di quello che descrivi è realmente successo e quanto invece è frutto della tua immaginazione?

L’evoluzione (o involuzione) del personaggio di Claudia viene esposta così per come è avvenuta; quindi, i fatti riportati soprattutto nella prima parte del romanzo, sono assolutamente reali, con la sola eccezione di nomi e luoghi specifici che sono stati sostituiti per evitare l’identificazione della protagonista. C’è un punto, che io definisco cruciale all’interno della vicenda, che segna un po’ il confine tra realtà e fantasia. Oltre quel fatto, che non rivelerò nemmeno sotto tortura, dico sempre che finisce il “come è andata” e inizia il “come Claudia vorrebbe che proseguisse la sua storia”: ricordo, infatti, che la reale vicenda non si è ancora, purtroppo, conclusa del tutto.

In particolare il personaggio di Alfio mi ha davvero impressionato. E’ come trovarsi di fronte a una di quelle installazioni di artisti moderni che usano i materiali più disparati per costruire un disegno, l’immagine non ti è chiara fino a quando l’ultimo elemento non viene messo al suo posto. Alfio è così, capisci che quello che vedi nasconde altro ma fino all’ultima pennellata non sai davvero cosa hai di fronte…

La spirale della violenza in cui trascina Claudia è da manuale, lui vittima di violenza assistita da parte del padre sulla madre a sua volta diventa un uomo violento, circuisce le sue vittime con fascino e carisma, le umilia, per poi tornare ad essere il principe azzurro e a seguire di nuovo il carnefice, questo lo definiamo il ciclo della violenza ed è comune a molte storie delle donne che arrivano nei centri antiviolenza.

Sai, molte donne non lasciano, non denunciano anche perché sperano di cambiare questi uomini con il loro amore per poi venirne inevitabilmente schiacciate. Pertanto ti chiedo, tu che conosci il tuo personaggio, Alfio, sarebbe recuperabile? Un uomo come Alfio secondo te può essere riabilitato?

Potrei risponderti con un’altra domanda: secondo te il narcisismo è curabile? Perché di questo si parla quando ci troviamo davanti Alfio. Fisicamente ho avuto un solo contatto con Alfio, a distanza di sicurezza, e ti posso garantire che le movenze, gli sguardi, tutto ciò che fa lascia trasparire un senso di onnipotenza che, secondo me, non è curabile se non con un cambio di vita radicale. Questo genere di soggetti, per quanto ho potuto studiare durante la stesura del romanzo, e per quello che poi ho visto concretamente, si nutre del senso di soggezione che riesce a indurre in chi gli sta intorno. Alfio è in quel modo non solo con Claudia, ma con chiunque si trovi a gravitare, anche solo per un breve periodo, nella sua orbita. In certi passaggi che mi sono stati raccontati da Claudia, ho provato addirittura un senso di pena per lui, perché ti rendi conto di avere a che fare con un soggetto che sa rapportarsi solo in un modo, non ha alternative: ti attrae con benevolenza e condivisione (apparente) di ogni suo spazio vitale, hai quasi l’impressione di avere a che fare con un soggetto che vuole solo godersi la vita senza troppi pensieri. Ogni minimo pensiero riguardo a qualche aspetto poco chiaro della sua vita viene immediatamente coperto da distrazioni, regali, elementi positivi che lo riabilitano all’istante. Ed è proprio in quell’istante, in quello stesso istante, che lui sta prendendo da te tutto ciò che può, e quando te ne rendi conto ti ha già buttato via come un limone spremuto.

In un’altra intervista, ti ho sentito dire parlando di quello che i lettori possano pensare di Claudia: “dopo un pò ti viene da chiederti perché questa ragazza non si sveglia, perché non si da fare? Il punto è che ti ci devi trovare prima di capire”. Generalmente la violenza del partner suscita appunto nelle donne vittime un senso di impotenza che viene definito impotenza appresa, eppure tu definisci Claudia come CAPACE DI ADATTARSI E IMPULSIVA…come riesci ad inquadrare questa cosa?

Credo abbia a che fare con la “sindrome da crocerossina”.

Claudia rifiuta l’idea di non poter cambiare Alfio, e la sua impotenza viene espressa attraverso un continuo adattarsi e riadattarsi alle “voglie” del suo uomo: di fatto, non sta scoprendo nessuna nuova parte di sé, sta solo perdendo tutto ciò che ha. Eppure, la sua impulsività la spingono a rilanciare sempre, ogni volta che Alfio alza l’asticella, lei trova le energie per provare a saltare, nonostante la catena che porta legata al collo sia ogni volta leggermente più pesante. Se potessi usare un neologismo, parlerei di “impotenza attiva”.

Questo processo, tuttavia, è impossibile da comprendere dall’esterno: è vero, diverse persone mi hanno scritto dicendomi “faccio fatica a crederci, le sarebbe bastato andare a denunciare”.

La mia risposta è stata sempre la stessa: “a lei è mai successo qualcosa di simile?”

Lascio immaginare a te la risposta.

Claudia arriva da una famiglia della Genova bene, con uno stile di vita socialmente “protetto”, un’istruzione superiore universitaria, ma il suicidio del padre la porta in una situazione di fragilità, terreno fertile per l’incontro con Alfio. Questo per dire che la violenza non ha classe sociale e nessuno di noi deve mai pensare che nostra sorella, madre, figlia, cugina o collega ne sia immune. Come ti sei sentito mentre raccontavi la sua storia, che potrebbe davvero essere la storia di una donna qualunque, anche vicino a te?

Male, parecchio male, proprio per questo motivo. Ho una sorella più piccola che mi definisce “la sua roccia”, e non puoi immaginare quante volte ho pensato a lei durante la stesura del romanzo.

Conoscevo, purtroppo, il fenomeno, ma non avevo massa di tutta una serie di aspetti che mai avrei potuto considerare se non mi ci fossi avvicinato così tanto.

La violenza, quella di cui parlano in televisione, è solo la punta di un iceberg che è quasi trasparente: non vedi niente finché non urti quella punta, e quando questo accade, quasi sempre ti rendi conto che stavi già affondando.

E tu, da esterno, ti rendo conto che magari hai notato un profilo strano, un atteggiamento che non torna, ma non vuoi invadere la privacy dell’altra persona; quindi, stai lì a guardare facendoti delle domande che non hanno risposta.

Spesso sento mia sorella, e altrettanto spesso cerco di “carpire” i suoi stati d’animo, di intravedere se davanti a lei ci sono minacce più o meno nascoste.

Hai dichiarato in un’altra intervista di aver avuto l’intento con il tuo libro di dar voce alle donne vittime di violenza, spesso in silenzio, col volto coperto, in mezzo ai salotti tv pieni di uomini esperti che non permettono loro di esprimersi. Mi hai anche accennato di avere avuto difficoltà nell’approcciarti con i centri antiviolenza in quanto sei uomo, vuoi spiegarmi meglio cosa è successo?

“Un uomo non può scrivere certe cose”, questa è stata la risposta che mi sono ritrovato nella mia casella di posta o che mi è stata detta al telefono da referenti di centri antiviolenza anche di un certo spessore. E questa è stata la risposta più cordiale, perché da qualche centro mi sono anche sentito dire che non avrebbero dato spazio al mio libro per “arricchire un uomo”.

Io penso che questa equazione semplicistica secondo cui uomo = cattivo e donna = vittima faccia male proprio alle donne, e ritengo che l’argomento debba essere affrontato da e con le figure che spesso rivestono la parte del carnefice. La “vittima” sa benissimo cosa è successo, non ha bisogno di qualcuno che glielo ricordi, le basta consapevolezza che la schiaccia al suolo quando si sveglia una mattina e si rende conto che il suo castello è solo una baracca in mezzo al deserto. Purtroppo, però, non riesco a far passare questo messaggio, come se ci fosse una classificazione per cui la donna è la vittima e va aiutata da altre donne, mentre l’uomo può essere solo il carnefice. Potrà sembrare pesante, ma mi sono sentito “discriminato”.

Ma chi, meglio di un uomo, può provare a spiegare il comportamento di un altro uomo?

Se vuoi creare la cassaforte più sicura al mondo, devi farla costruire al ladro migliore del mondo: io la penso così.

E’ di pochi giorni fa la notizia di un ragazzo abusato da un altro uomo che non ha ricevuto supporto dai centri antiviolenza in quanto non esistono protocolli ad hoc per un uomo,

Quindi, secondo te la disparità di genere in realtà causa preconcetti anche negli ambienti che cercano di combatterla?

L’ho letta anche io, e sono rimasto amareggiato, proprio perché fa il paio con la domanda precedente. Finché si continua a fare del sessismo si sposta il focus sul vero problema, che è la violenza, fisica e psicologica. Non aiutare un uomo perché il protocollo non lo prevede significa creare un precedente pericoloso per cui, un domani, esisterà la violenza di genere di serie A e quella di serie B. Non si potrà comprendere l’entità di un problema come questo se si continua a tenere alta l’attenzione sulla vittima e non sul carnefice.

La vecchia favola di Esopo del lupo e della pecora che bevono l’acqua del fiume dovrebbe averci insegnato che nelle storie c’è sempre un flusso da seguire, c’è un monte e una valle, eppure…

Cosa vorresti dire alle Claudia che non ti hanno raccontato la loro storia?

Di non tollerare, perché tollerare è solo un altro modo per giustificare. Direi loro di parlarne, trasformando la vergogna che ti assale in energia per darti la spinta e risalire. Direi loro che non c’è niente di male nel toccare il fondo, perché tutti noi abbiamo bisogno, a volte, di capire quanto riusciamo a sprofondare prima di riemergere.

E gli direi che l’amore è una mano aperta.

Per una carezza, per asciugare una lacrima, ma mai per uno schiaffo.

L’utopia della libertà: Alessia Piperno

Alessia Piperno, 30 anni appena compiuti, romana, globe trotter, è stata arrestata il 28 settembre insieme ad altri amici di varie nazionalità europee in Iran, paese in cui si trovava da circa due mesi. E’ il padre a dare l’allarme, non la sentiva da quattro giorni e poi ha ricevuto una telefonata dalla stessa Alessia che chiedeva aiuto da una prigione di Teheran.

Le circostanze che hanno portato all’arresto non sono chiare, si ipotizza che il regime Iraniano l’abbia scambiata per un’attivista delle recenti proteste per la morte di Mahsa Amini che stanno scuotendo il paese, oppure che la ragione sia la festa di compleanno organizzata per i suoi 30 anni con torta, amici, palloncini dorati e cappellini da festa (in Iran è vietato per legge festeggiare il compleanno in alcuni luoghi e soprattutto in modo vistoso). Altri credono in una segnalazione partita da un Iraniano che l’aveva aiutata ad allungare il permesso di soggiorno poco tempo prima.

I media iniziano a diffondere la notizia e i social danno voce all’opinione pubblica. Tra gli accorati appelli per la sua liberazione e le dimostrazioni di solidarietà alla famiglia spuntano le critiche che la vogliono dipingere come un’avventata ragazza che se l’è andata a cercare, giudicando le sue azioni e il suo viaggiare da sola in giro per il mondo. Sinceramente ho pensato: “Ecco la colpevolizzazione della vittima che ci permette di sentirci più sicuri nelle nostre piccole vite.”.

Se non fosse in viaggio da sola, da sette anni ma in vacanza da 15 giorni con la famiglia e avesse fatto le stesse cose forse nessuno la giudicherebbe? Se fosse un uomo, come Alberto Angela rapito in Niger nel 2022, forse nessuno direbbe che è colpa sua?

Oppure a prescindere è giusto pensare che uomo o donna, in questo momento storico l’Iran non è una meta consigliata per il popolo occidentale e che Alessia ha inanellato troppe ingenuità?

Di sicuro, se ci sono delle colpe di Alessia, una è quella di essere una viaggiatrice in un mondo dove l’indipendenza delle donne e parte degli stessi diritti umani sono palesemente negati, come in Iran, o comunque mai davvero acquisiti fino in fondo e dati per scontati, come in Italia. Come la democrazia anche la libertà negli ultimi anni si sta dimostrando un’utopia.

Ho deciso di guardare i sette anni di viaggio che questa ragazza ha condiviso sui social dall’account Instagram @travel.adventure.freedom e soprattutto di leggere le sue parole, per provare ad intravedere chi è Alessia.

Nel 2016 è partita da Roma per l’Australia, una ragazza con uno zaino e uno smartphone che fa le cose che fanno tutti i ragazzi in viaggio, fotografa scorci di natura e città, animali, cibo e monumenti.

Dall’Australia a Samoa, da Bali all’India, dallo Sri Lanka all’Islanda, da Panama all’Honduras, dal Marocco al Pakistan ed infine all’Iran.

La mia impressione è che Alessia sia partita come una ragazza di 23 anni che cerca se stessa lontano da casa e fotografa tramonti e animali, centrata più su di sé, come è giusto che sia, tormentata dal capirsi, dal cercare di scoprire il perché brama il viaggio, il perché non riesce a stare ferma in un luogo.

Nel tempo il tenore delle sue foto e dei suoi testi muta, evolve, diventa una globe trotter che si immerge e si fa riempire dalla vita dei paesi che visita, non più solo una turista, accoglie il cibo, le usanze, la cultura e le fragilità, fotografa bimbi, donne, villaggi, povertà ma anche tanti occhi felici. A volte è senza soldi, dorme in tenda e deve trovare un lavoro anche da 14 ore al giorno per pagarsi il prossimo viaggio, soffre terribilmente nel sentirsi incastrata in una realtà convenzionale, ma cresce, conosce, capisce le realtà e le culture a cui si avvicina, tra l’altro sempre con estrema delicatezza.

Alessia scrive “Non sono andata via dall’Italia per cercare un posto migliore della mia città, non sono andata ai tropici e nemmeno in un posto in cui la gente potrebbe invidiarmi, invece dire che ho deciso che viaggiare per me vuol dire andare in un posto diverso da casa tua, e viverlo, cosa che non è sempre piacevole.”.

Ed infine a luglio di quest’anno arriva in Iran, affascinata dal paese, ignara che le cose possano precipitare tanto velocemente scrive: “Tante persone credono a qualsiasi propaganda sentita dai media su quanto sia pericoloso viaggiare in questa terra. Ecco, fatemi il piacere, buttatela la televisione.”

Poche settimane dopo invece, rimane profondamente colpita da quello che vede intorno a sé, dalle proteste per la libertà delle donne Iraniane, e il 26 settembre scrive “Eppure per quanto possa essere la decisione più saggia da prendere, io non ci riesco (si riferisce a lasciare l’Iran n.d.a.). […] Noi europei non sappiamo nulla di questa gente […] stanno manifestando per la loro libertà […] “Non hai paura?” ho chiesto ad Hamid pochi giorni fa, prima che uscisse a protestare, “Certo che ho paura, ma se continuiamo a vivere nella paura e nel silenzio, non vedremo mai la libertà”. E così, in Iran, Alessia capisce che è fortunata, solo per essere nata in Italia e che dopo aver preso tanto dal mondo vuole sdebitarsi, donando agli altri tutta l’energia che la muove: decide il giorno del suo compleanno che a breve partirà per andare in Pakistan a ricostruire un villaggio distrutto dall’alluvione. Anche qui scorgo un’evoluzione.

Alessia ha sempre rispettato le usanze del paese in cui si trovava, capo coperto compreso, ha però pensato di poter scambiare qualche parola con chi partecipava alle manifestazioni, non essendoci lei andata in prima persona, ha anche pensato di poter scrivere sui social italiani, nella sua lingua, quello che vedeva e le raccontavano, ha addirittura pensato di poter festeggiare il suo compleanno. Lo ha pensato, perché riteneva erroneamente di essere libera.

A.P.