Ospitiamo un pezzo di Katiuscia Zambrella
Ne sono passati di anni dalla prima rappresentazione della donna “per eccellenza”, la principessa, sognata nel secolo scorso con il rossetto rosso, le ciglia allungate, cipria bianca e gote con il blush rosa, come voleva la moda dell’epoca, a partire dagli anni ’30, dopo la caduta della Borsa di Wall Street, quando il tacco alto e il punto vita tornarono ad essere protagonisti. Biancaneve, incarnava oltre che, a conferma del nome, il modello estetico, anche e soprattutto l’ideale dell’uomo di quei tempi (ma si discosta davvero dall’attuale?) e cioè la perfetta padrona di casa: puliva, rassettava, accudente verso i nanetti, riservata, basti pensare alla prima reazione davanti al principe azzurro, quando fuggì via spaventata; ingenua e romantica, fa entrare una “vecchina” sconosciuta e mangia la mela offerta, viene salvata da un primo eroe, il cacciatore, che ha pietà di lei e, anziché il suo cuore, porta alla regina malvagia che voleva disfarsi della sua bellezza, il cuore di un cervo. Fino all’arrivo del principe che ancora una volta, da eroe, l’avrebbe difesa e portata via con sé, per amarla per sempre.
La situazione pare peggiorare quando fece il suo ingresso sullo schermo Cenerentola (o Cinderella), la vittima sacrificale di un’intera famiglia: la madre muore, il padre si risposa con un’arpìa che punta al suo patrimonio, le figlie – nonché sorellastre – sono viziate ed egocentriche oltre misura, poco dotate di acume e tantomeno di bellezza, naturalmente invidiose della sorellastra bella come il sole anche solo con uno straccio addosso e un filo di trucco. Si potrebbe dire che la poverina, arrivata in scena negli anni ’50, impersonificava un po’ tutte le figlie del sistema gerarchico del periodo, dove gli adulti imponevano un rigido modello educativo, poco incline al confronto, arbitri di ciò che era giusto e sbagliato, dove i figli dovevano solo obbedire, senza proferire parola. Ma…c’è un ma. Proprio come accade alle “mosche bianche”, qualcosa di stra-ordinario avviene. La schiava-principessa, si oppone al volere dell’adulto, la matrigna, andando di nascosto al ballo (sarà per questo che da piccola era la mia preferita?), disobbedendo di fatto ai suoi ordini. È vero, anche in questo caso, l’emblema della felicità è rappresentato dal Principe che la prende in sposa e lotta per trovarla ed esimerla da un esempio di vita poco dignitosa, ma attenzione, questa volta è lei che sceglie. Anche di sposarlo.
Con Aurora (o Rosaspina la sua seconda identità) ne “La bella addormentata nel bosco”, concluso da Disney pochi anni dopo, lo scenario è pressappoco simile. La principessa si ribella al volere delle zie-fate madrine che l’avevano tenuta nascosta fino ai suoi 18 anni (per via di un maleficio che le avrebbe procurato un sonno profondo e la caduta dell’impero, salvo il bacio d’amore di un Principe), maleficio del cui nemico però Aurora non sapeva nulla, in quanto super protetta dall’ambiente familiare. In un certo senso abbiamo un’involuzione, un’immagine femminile più sprovveduta e ingenua, che attende solo di essere amata. Così come il nostro Principe, che questa volta non si limiterà a “portarla via” dal pericolo, ma si batterà per lei contro un enorme drago, amplificando l’ideale dell’eroe maschile.
Ma la svolta arriva con Ariel, la Sirenetta. Per la prima volta è una donna a scegliere di lottare per la sua libertà, litigando col padre, abbandonando il suo mondo e – addirittura – salvare lei, il suo principe. Uscito alla fine degli anni ’80, possiamo considerarlo come riflesso della rivolta femminista degli anni ’70?
Passiamo a Belle, la bella intellettuale. Siamo negli anni ’90, in cui comincia a paventarsi l’idea di “moglie trofeo”, ovvero l’uomo potente doveva essere accompagnato da una donna dai canoni estetici molto alti, indipendentemente dal suo cervello. E, in questo caso Disney vuole lanciare un messaggio in contrapposizione alle aspettative sociali del momento che suggerisce: la donna è anche altro. È lei, Belle, la prima donna emancipata Disney. Ambiziosa, sogna una vita migliore, studia, ha una grande intelligenza emotiva, è sicura di sé e delle sue potenzialità. Non si accontenta. E la sua testardaggine verrà in qualche modo premiata, dietro alla Bestia, c’è, prima che un bel principe, un uomo rispettoso e attento ai suoi bisogni.
Jasmine, pochi anni dopo, nel 1992, incarnerà l’emblema della donna sensuale e carismatica, apparentemente sicura di sé, che, suo malgrado, cede alle avance di un (ladro travestito da) gentlemen (storia già sentita?). Il lieto fine però ci dice che sarà lei, a scegliere di far diventare Principe il ladruncolo, ribellandosi anch’essa a ciò che chiedeva la tradizione.
Pressappoco alla stessa stregua di Ariel e Belle sarà Pochaontas, a metà anni Novanta, che scapperà dalla sua tribù per fuggire in America alla ricerca del suo amato.
Mentre con Mulan, di origini cantonesi e di estrazione sociale bassissima, a fine anni Novanta, si invade e destabilizza un altro territorio stereotipato; la donna orientale con l’ideale della geisha, sceglie di diventare, a dispetto di quello che la sua cultura e la sua famiglia le impone, quello che vuol essere realmente: un soldato. Travestendosi (però) da uomo e affrontando tutti i dodici anni di guerra senza che nessuno mai se ne accorgesse. Ma il vero colpo di scena è un altro: questa volta non è la storia d’amore a lieto fine, ad occupare la scena, in quanto, come osservato dal critico cinematografico Andy Klein: “Mulan non sta aspettando che il suo principe un giorno venga; quando arriva, avendola conosciuta principalmente come un uomo, e avendo imparato ad ammirarla per le sue qualità più profonde, la storia d’amore è muta e sottile. Durante tutto il film lavorano costantemente per aiutarsi a vicenda a trasformarsi in versioni migliori e più vere di sé stessi al fine di raggiungere il loro vero potenziale”.
Sulle scie di Belle, Jasmine, Pochaontas e Mulan, in fatto di indipendenza, con maggiore incisività, arriverà Tiana, nel 2009, umile domestica di New Orleans al servizio del sindaco, la quale, contro ogni aspettativa, si rifiuterà di baciare il principe divenuto ranocchio per poter esaudire il suo sogno: aprire un grande ristorante, portando avanti, insieme al suo, anche il desiderio del padre defunto, a cui era affezionata e dal quale aveva ereditato creatività e ottimismo. The Oprah Magazine ha definito l’arrivo di una principessa Disney nera un “superamento della barriera, atteso da tempo”
Ed eccoci arrivate alla mia seconda principessa preferita (forse per narrazione pregna di molteplici significati): Rapunzel (o Raperonzolo). Uscita nel vicino 2010, la storia è quella di una principessa dotata dalla nascita di una chioma “magica” contenente il segreto della giovinezza, rapita da una strega malvagia e narcisista, che mal sopportava l’idea di invecchiare. La strega, spacciandosi per la madre della piccola, cresce la bella principessa in una torre senza porte e senza scale, nascosta in mezzo al bosco. I capelli di Rapunzel, mai tagliati, raggiungono lunghezze chilometriche che la presunta madre utilizza per entrare e uscire dalla torre. Compiuta la maggior età, la figlia devota, abituata a crearsi il suo mondo personale dentro ad un unico ambiente fatto di sogni e di illustrazioni colorate sui muri oltre che ad un unico amico (non a caso) rappresentato da un piccolo camaleonte, chiede di poter uscire per vedere le stelle. Qui si apre un altro interessante scenario: la “madre”, evidentemente manipolatrice, fa credere a Rapunzel che il mondo è pieno di mostri e gente cattiva, pronta ad ucciderla pur di rubarle il suo dono. Entra in scena il nostro nuovo modello maschile, un altro ladruncolo, Finn, stavolta, emblema del maschio Alpha, l’uomo che non deve chiedere mai, affascinante, vanitoso e pieno di sé, che, in fuga da altri furfanti speranzosi di condividere il bottino come concordato, scopre la torre e conosce la ragazza. Rapunzel riesce a difendersi e a mettere a terra l’uomo con una pentola e, al suo risveglio, lo obbligherà a portarla fuori dalla torre in cambio della refurtiva (senza essere al corrente che si trattasse proprio della sua corona, rubata a palazzo reale ai genitori addolorati, che non avevano mai smesso di sperare che fosse ancora viva). Il patto va a buon fine, i due passano una giornata fatta di nuove conoscenze ed esperienze mai fatte, per la principessa, fintanto che la strega non se ne accorge. A quel punto Rapunzel viene ulteriormente tradita da quella che pensava fosse sua madre, la quale, prima di trovarla, stringe un accordo con i due malavitosi, promettendogli la corona in cambio del rapimento del ragazzo. Quando la strega la troverà, le farà credere che lui sia stato consenziente, preferendo la corona a lei e riportandola a casa. Quindi? Il lieto fine? Il lieto fine c’è, ma non per mano di Finn, o meglio, Rapunzel si renderà conto da sola, di chi è (quella che pensa essere) sua madre, grazie al suo intuito e, soprattutto, grazie all’apertura al “mondo” esperita in quell’unico giorno di libertà. E, una volta tanto, l’uomo, dapprima materialista, per amore di quella donna coraggiosa, sceglie di salvare lei e non i suoi preziosi capelli, restituendo alla strega malvagia tutti gli anni rubati, riducendola in cenere e baciando la comune mortale che si rivelerà poi essere, quasi come “premio alle buone intenzioni”, la principessa cercata dal suo Regno.
Merida in “Ribelle” (2012), ribelle per definizione, adolescente “tipo” che non segue nulla delle regole impartite dalla regina madre, una principessa che non si sente tale, non ha un portamento delicato e neppure un carattere fragile, che ama cavalcare, scoccare frecce, combattere e non rinuncerebbe mai alle proprie giornate di svago prendendo marito, arriverà al punto di trasformare per sbaglio la madre in un orso. Tra mille imprevisti, poi, con l’aiuto dei fratellini pestiferi (che aveva fino a quel momento sottovalutato) e rendendosi conto dell’importanza che il ruolo della madre ricopriva per lei, iniziò con la stessa un rapporto fatto di fiducia e di comprensione, di protezione reciproca, arrivando finalmente a capirsi l’un l’altra e a liberandosi da un ruolo “forzato”, la madre tornerà ad essere più spensierata e la figlia più responsabile. Un racconto tutto al femminile, quindi, nessun principe azzurro.
E arriviamo alle due tanto amate principesse di Frozen (2013), Anna e Elsa. Adattata dalla fiaba di Hans Christian Andersen, “La regina delle nevi”, ci parla di due sorelle, quella dotata ma emarginata perché non in grado di controllare i suoi poteri e quella nella “norma”, che conduce una vita abitudinaria ma senza la compagnia dell’amata sorella. Anche qui in una storia tutta al femminile, di solidarietà (a differenza della fiaba originale che ci parlava di un rapporto più antagonista) dove vince l’intuito femminile e l’atto d’amore sopra ogni cosa, in quanto, Elsa rinuncerà ai suoi poteri pur di salvare la sorella dalla morte. A quest’ultima rimarrà l’uomo un po’ rude ma onesto conosciuto durante le ricerche della sorella fuggita e all’altra, la consapevolezza di quali sono i veri valori a cui non può rinunciare, l’amore fraterno e una vita vissuta appieno.
Ma il premio va a Vaiana, che in “Oceania”, nel 2016, acquisisce a pieno titolo i tratti dell’eroina. Vaiana è una giovane ragazza intraprendente e insieme saggia, destinata a diventare il capo villaggio dell’isola di Motunui. Da piccola viene scelta dall’Oceano per ritrovare il cuore dell’isola madre Te Fiti, rubato mille anni prima dal semidio Maui, perciò, dopo la morte dell’amata nonna, Vaiana intraprende un’audace missione per salvare il suo popolo. Sì, ma come ci riesce? Grazie al viaggio, metafora del percorso di vita. Perché solo quando, convinta del sapere tramandatole dalla sua famiglia, affronta il semidio Maui, scopre altre verità possibili, scopre che non tutto è come appare e capisce chi vuole essere realmente. Il suo scopo quindi, non sarà più solo salvare l’isola, ma, soprattutto, fare da mediatrice tra le credenze popolari radicate e le verità umane (o semiumane) soggettive, aiutando Maui e se stessa, portando alla riflessione e alla redenzione tutti coloro che hanno contribuito alla deprivazione dell’isola, insegnando l’arte del perdono, del rispetto, del non giudizio. Perché, come diceva Jorge Luis Borges, «Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza».