Da sessantanove anni: HER MAJESTY QUEEN ELIZABETH II

Elizabeth Alexandra Mary, divenne Regina d’Inghilterra quasi per caso. La discendenza di Re Giorgio V vedeva suo zio Edoardo come primo erede al trono.

Edoardo, tuttavia, regnò ben poco, il suo amore per Wallis Simpson, americana con due divorzi alle spalle, lo portò all’abdicazione in favore del fratello Alberto, papà della giovane Elisabetta.

Alberto salì al trono l’11 dicembre 1936 e prese il nome di Giorgio VI; Elizabeth divenne così, prima in linea di successione al trono d’Inghilterra a 10 anni.

La monarchia, però, almeno fino a 8 anni fa, prevedeva “disparità di genere”, la giovane Principessa di York, è stata infatti, per molti anni, semplicemente erede presunta; se i suoi genitori avessero avuto un figlio maschio, avrebbe ereditato il trono in quanto di sesso maschile e lei avrebbe dovuto cedere il posto, perché quelle erano le regole – cambiate nel 2013 con il  Success to the Crown Act 2013 , approvato principalmente proprio “per fare in modo che la successione alla Corona non dipendesse dal sesso” .

La giovane Elisabetta, quindi, non immaginava che un giorno, nemmeno troppo lontano, sarebbe diventata Regina, tantomeno che sarebbe stata la Monarca più longeva nella storia del Regno Unito (superando la Regina Vittoria, sua trisavola, il cui regno durò 64 anni).

Siamo abituati alla sua immagine forte, austera e decisa, si fa fatica a immaginarla fanciulla, eppure grazie a internet, nello specifico al profilo Instagram della Royal Family, la (ri)scopriamo nelle sue mille sfaccettature: bambina felice, allegra e spensierata, o giovane audace e risoluta.

Tra le storie in evidenza, ho trovato A young Queen, una serie di immagini che ripercorrono la vita della regina prima dell’incoronazione. Fra queste, spunta un tenero bigliettino che scrisse ai genitori quando diventarono Re e Regina:

“L’incoronazione, 12 maggio 1937, a mamma e papà, in memoria della loro incoronazione. Da Lilibeth”.

Non è difficile immaginarla bambina, con in mano un colore mentre riversa tutto l’amore per i genitori sul quel piccolo foglietto di carta. Il soprannome “Lilibeth”, che dicono si sia data lei stessa, restituisce un’immagine a cui l’immaginario comune non è abituato, le dona un tocco di umanità, laddove spesso vediamo solo sfarzi, imposizioni e quasi perfezione ostentata.

La ricordiamo con i ricci capelli bianchi e gli abiti sempre colorati, ma anche lei è stata bambina, ragazzina, donna, si è innamorata e ha combattuto le sue battaglie.

A soli venticinque anni si è trovata improvvisamente ad affrontare il lutto per la morte prematura del padre, deceduto all’età di cinquantasei anni a causa di una lunga malattia, e le preoccupazioni legate al suo nuovo ruolo di Regina del Regno Unito e dei paesi del Commonwealth. Eppure ha conservato la sua immagine risoluta e dignitosa. Almeno di fronte ai suoi sudditi.

Elisabetta era in Kenya con il marito Filippo quando la raggiunse la notizia della morte del padre nel sonno, avvenuta la notte del 6 febbraio 1952.

Aveva lasciato l’Inghilterra da principessa e vi rientrava Regina, l’indomani della prematura dipartita del padre.

Sebbene Elisabetta ricoprisse, a tutti gli effetti, il ruolo di Regina del quel tragico 6 febbraio, l’organizzazione dell’incoronazione (prima e al momento unica avvenuta in eurovisione grazie alle riprese della BBC) richiesero 16 mesi di preparativi.

La cerimonia di investitura avvenne il 2 giugno 1953 e, nonostante l’Inghilterra risentisse ancora degli strascichi lasciati dal Secondo Conflitto Mondiale, fu volutamente pomposa e piena di sfarzi, a simboleggiare la voglia di rinascita del paese.

La Regina stessa, negli anni successivi, definì “orribile” la cerimonia, costata 1,57 milioni di sterline; reggere la corona era stata un’impresa – per via dei gioielli incastonati, pesa più di 2 kg – e la minuta Elisabetta dovette indossarla per tutta la cerimonia, compreso il passaggio per le strade di Londra a bordo di una carrozza costruita 200 anni prima con un legno durissimo e priva di ammortizzatori.

Il peso della corona, dell’abito e del mantello sono stati quasi un monito per la giovane York, un ricordo costante del fardello reale che sarebbe gravato sulle sue spalle da allora in avanti.

Elisabetta II, però, nel corso di questi quasi settant’anni, è stata sempre irreprensibile, seria e risoluta e non ha mai perso di vista i bisogni del suo paese, ragione per cui, a oggi, è ancora la “Royal” più amata nell’intera storia della Gran Bretagna.

IL PROCESSO A GIOVANNA D’ARCO

Qualche settimana fa scrivevo della caccia alle streghe, del buio periodo di bassezza umana che ha sterminato oltre nove milioni di streghe; tra queste Giovanna D’arco, la pulzella d’Orléans, che la Chiesa uccise condannandola al rogo, a soli 19 anni.

La giovane francese (6 gennaio 1412 – 30 maggio 1431), figlia di contadini, è vissuta in piena guerra dei Cent’anni, un’epoca in cui la Francia era in continuo subbuglio a causa della lotta per il potere tra feudatari e monarchia inglese che mirava a conquistare la nazione.

La Pulzella è un’umile pastorella analfabeta di diciassette anni quando, nel 1429, convinta di essere stata scelta da Dio per salvare la Francia, percorre 2500 chilometri e si presenta alla corte di Carlo VII chiedendo di poter cavalcare in capo all’esercito francese che va a soccorrere Orléans, assediata dall’esercito di Enrico VI, autoproclamatosi sovrano del Regno Unito di Francia e d’Inghilterra.

La convinzione di essere stata scelta da Dio deriva dal fatto che, mentre era vicino a una chiesa, sente una Voce dal Cielo; poi le Voci che la accompagnano, dandole consigli e rimproveri su suo operato, diventano tre: quelle di San Michele, di Santa Caterina d’Alessandria e di Santa Margherita di Antiochia.

Quelle chiamate divine però, saranno l’anima del suo operato ma contribuiranno alla sua condanna a morte; sarà, infatti, proprio l’origine di quelle Voci uno dei temi principali del processo di condanna della giovane come strega.

La ferrea convinzione di agire su volere di Dio rese possibile l’impossibile; a quell’epoca, infatti, era pressoché impensabile che una ragazzina riuscisse a farsi ascoltare dalla corte di Francia e ancor più che riuscisse a comandare un esercito di più di mille soldati provati da tanti anni di guerra, a rinvigorirne gli animi e a vincere numerose battaglie.

Quella fede, rimase forte anche nell’insuccesso e nel tradimento, quando, infatti, i Borgogni la catturano per rivenderla agli inglesi, il suo re non fa nulla per liberarla e Giovanna, che rappresenta una minaccia e in quanto tale va eliminata, viene sottoposta a un processo per eresia.

Il processo a Giovanna d’Arco inizia proprio il 3 gennaio di quasi seicento anni fa, le Voci divine, gli abiti maschili e il suo comportamento non proprio femminile, furono gli argomenti principali degli interrogatori a cui venne sottoposta.

I verbali di quei colloqui, di cui v’è ancora traccia, sono la fonte principale da cui è possibile ricostruire la storia della giovane francese.

Le udienze avvengono a porte chiuse davanti a un tribunale ostile, composto da prelati che mostrano apertamente la loro convinzione che la ragazzina stesse mentendo, d’altronde quelle Voci rappresentano il segno di un rapporto diretto con Dio, senza l’intervento di alcuna mediazione; una sfida che la Chiesa non poteva accettare.

Sola e in catene la Pulzella tiene testa ai suoi inquisitori per tre mesi. La sua fede vacilla solo una volta, quando stanca e impaurita dalla prospettiva del rogo, nel cimitero di Saint-Ouen abiura e dichiara di essersi inventata ogni cosa.

Sei giorni dopo però, torna a vestire abiti maschili. Dichiara di aver udito Voci che la ammonivano per aver abiurato e accetta la sua condanna senza ripensamenti.

Il 30 maggio muore sul rogo perché riconosciuta colpevole di idolatria, scisma e apostasia.

La giovane pastorella analfabeta ha sacrificato la vita per il suo paese; sebbene fosse guidata dalla convinzione di essere nata per compiere una missione divina: salvare la Francia, le sue gesta eroiche sono simbolo di forza e orgoglio femminile e la sua strumentalizzazione la dice lunga sul genere umano e la patologica necessità di fare buon viso a cattivo gioco.

Già, perché la monarchia francese, che le aveva voltato le spalle dopo la sua cattura – Carlo VII non aveva provato nemmeno a liberarla dai Borgogni – ha successivamente avviato un processo di riabilitazione.

La figura di Giovanna d’Arco, a seguito della testimonianza di centoquindici persone che l’avevano conosciuta davvero e che con lei avevano combattuto, è stata riscattata; a uso e consumo, però, dei Valois, dinastia regnante in Francia, che non potevano discendere da un’eretica.

Curiosa anche la posizione della Chiesa che, vista la popolarità della giovane, che continuò a essere amata dal popolo anche dopo la sua morte, avviò un processo di santificazione nonostante fossero stati proprio i prelati i principali promotori della sua condanna.

“MALLEUS MALEFICARU. Haeresis est maxima opera maleficarum.” LA CACCIA ALLE STREGHE

Per oltre 5 secoli, sotto la benedizione di circa 70 papi, persero la vita almeno nove milioni di streghe. L’80% delle quali erano donne e bambine.

Nella Storia, purtroppo, ricorrono spesso tempi bui, in cui la bassezza umana esprime tutto il suo potenziale. Ripercorrendola a ritroso, infatti, in ogni secolo ritroviamo un avvenimento tanto cupo da non poter essere non ricordato. Il Nazismo nel ‘900, la tratta degli schiavi nell’800, nel ‘500 la sanguinosa lotta dei conquistadores in America.

Il periodo più buio però fu quello della caccia alle streghe. Sebbene la bolla di papa Innocenzo VIII, “Summis desiderantes affectibus” sulle streghe, che ordinava di inquisire sistematicamente, per scoprire torturare e giustiziare le streghe in tutta Europa, che da ufficialmente inizio alla caccia alle streghe, sia datata 5 dicembre 1484, già nell’anno 1184 il papato aveva istituito l’Inquisizione per combattere l’eresia.

Questa lunga epoca è costellata di atti vergognosi, abusi di potere, torture, omicidi, accuse ingiuste e fanatismi religiosi.

La caccia agli eretici prima del 1484, con la nascita delle Constitutiones, era affidata ai vescovi e già da allora la percentuale dominante dei perseguiti erano donne, perché ritenute creature inferiori da cui diffidare sempre, temibili e alleate con il diavolo.

Con la bolla del 5 dicembre, Innocenzo VIII e l’imperatore Massimiliano I d’Austria, autorizzano due frati domenicani, Heinrich Kramer Institor e Jacob Sprenger, a punire, incarcerare e correggere tutti coloro che si erano macchiati delle colpe della stregoneria, dando così il via a una viera e propria crociata.

I due teologi nel 1486/87 danno in pasto alle stampe uno dei libri più oscuri della letteratura mondiale, il“Malleus Maleficarum” (“Il martello delle streghe”) un vero e proprio manuale dell’inquisitore in cui si illustravano i modi in cui agivano le streghe e i mezzi per riconoscerle, nonché i metodi necessari a farle confessare, interrogatori e torture al termine dei quali confessare e morire era solto un sollievo.

Lo scopo ultimo era quello di estirpare il male ed elevare l’umanità cristiana perseguitando tutti coloro che si erano allontanati dalla fede cristiana, ma il trattato scritto dai due autori, affrontava la stregoneria come fenomeno prettamente femminile, a causa dell’assurdo assunto per cui le donne erano naturalmente predisposte ad accettare la seduzione del diavolo e ad accoppiarsi con lui.

Il “Malleus Maleficarum” divenne un compendio di superstizione e misoginia, un delirio sessofobico che trovò terreno fertile nel popolo il cui tasso di ignoranza elevato era terreno fertile per i potenti, bisognosi instillare il terrore per mantenere il potere.

Ogni evento inspiegabile era riconducibile a un atto di stregoneria, di cui spesso venivano accusate donne sole, giovani o anziane non importava, per cui era difficile trovare elementi efficaci a loro difesa e che dietro torture, fisiche e psicologiche, finivano per confessare.

Inoltre le donne ricoprivano il naturale ruolo di guida all’interno della società, si occupavano della salute, trasmettevano tradizioni, le più anziane erano depositarie dei principi femminili di conservazione, protezione e aiuto reciproco, condivisione; erano quindi viste come una “minaccia” al potere delle autorità.

L’inquisizione terminò soltanto nel 1782, quando in Svizzera si ebbe l’ultima condanna, in pieno Illuminismo, quando la ragione era diventa prioritaria già da tempo.

La caccia alle streghe è davvero finita?

Sull’argomento si interroga la scrittrice Silvia Federici, con il libro “Caccia alle streghe. Guerra alle donne” (Not-Nero edizioni, 2020), secondo cui la caccia alle streghe, che ha fatto circa cinquantamila vittime (a maggioranza femminile), è un fenomeno riconducibile alla nascita del capitalismo; le ragioni di tale assunto risiedono nella natura economica, piuttosto che religiosa, del fenomeno che colpi, appunto, sia paesi cattolici che protestanti, accomunati dal bisogno di una riconfigurazione sociale, necessaria alla creazione del nuovo ordine economico e sociale.

La Federici, che già sull’argomento aveva pubblicato il saggio “Calibano e la strega”, fa nel libro un’analisi storica iniziale del fenomeno che colpi l’Europa e l’America fino al 1700, nella seconda parte invece, esamina i fenomeni di violenza – non solo fisica – che negli ultimi trent’anni affliggono soprattutto i paesi sunshariani, asiatici e del Sud America.

Come scrive la Not a sinossi, “ La caccia alle streghe è tornata scatenare nel XXI secolo una nuova ondata di violenza, interpersonale e istituzionale, contro le donne. E anche oggi, come nel Medioevo, questa violenza misogina che demonizza la donna procede di pari passo con l’accumulazione capitalistica, che si sviluppa attraverso processi di espropriazione e distruzione dei rapporti di solidarietà e potere che regolano la vita delle comunità”. L’autrice quindi, “esamina le cause profonde della guerra in atto, fatta non solo di violenza domestica e sessuale, ma anche economica e strutturale, il cui esito è ancora una volta quello di sovvertire i processi di riproduzione sociale per spaccare le comunità e aprire la strada all’individualismo funzionale al progetto neoliberista. Caccia alle streghe, guerra alle donne è un’indagine sulle cause di questa nuova violenza e una chiamata femminista alle armi, che attraverso la memoria e l’analisi del passato offre spunti inediti per le lotte a venire.”

E voi cosa ne pensate?

Continua davvero la caccia alle streghe?

E nei paesi dell’occidentale industrializzato?