Ci sono parole all’apparenza innocenti che hanno il potere di aprirti una crepa dentro, dalla quale poi fuoriesce tutta la merda che hai accumulato lungo il corso della tua vita. E questa merda non va lasciata galleggiare in superficie, ma ripulita nel modo che si ritiene più consono. Io lo faccio scrivendo. Ed è per questo che oggi voglio condividere una riflessione scomoda senza il timore di sporcarmi le mani o di turbare i benpensanti.
Il termine incriminato è: opportuno.
Partiamo dalla definizione che ne dà il dizionario:
Che viene a proposito, che è adatto alle condizioni del momento, alle necessità o al desiderio.
Nulla da eccepire, direi. Il problema è che tale definizione non è solo una frasetta scritta su un’enciclopedia ma viene presa e applicata alla nostra realtà sociale. Viene messa lì, su un comò, dove tutti possono vederla. Viene condita da norme e regole non scritte che fanno pendere la bilancia verso i primi due termini dell’assunto (condizioni e necessità) ma non verso il terzo: il desiderio. Di chi? Dell’individuo chiamato a valutare cosa sia opportuno o cosa no, oppure di una collettività più interessata a mantenere lo status quo che a garantire il benessere e la felicità di chi ne fa parte? Il fatto che il governo stia di nuovo sbarellando su aborto e unioni civili dimostra che spesso la definizione di “opportuno” è in mano a una maggioranza conformista e alle sue regole non scritte, che i sociologi chiamano “senso comune”, gli esoteristi “inconscio collettivo” e io, che per tutta la vita sono stata considerata un’outsider, ho sempre definito “sindrome della pecora”. Perché purtroppo, in questo mondo, rimane ben poco spazio per la coscienza, per i sentimenti individuali. Siamo intrappolati in un universo che divide tutto in bianco o nero, in giusto” e “sbagliato, sulla base di canoni obsoleti, di valori che sono stati calati sulle nostre teste come una spada di Damocle, e che abbiamo tutta la libertà di rifiutare. Sì, ce l’abbiamo. Ma il nostro bisogno di approvazione ci fa credere di no.
Perché non è facile accettare di muoversi controcorrente. Ve lo dice una che ha passato tutta la vita a barcamenarsi tra due tendenze contrapposte: da un lato, il timore di deludere la propria famiglia (piuttosto tradizionalista, direi) e i loro valori; dall’altro, il desiderio di seguire un’intuizione che non mi ha mai ingannata, nemmeno quando mi ha obbligata a prendere decisioni impopolari.
È facile, infatti, dal concetto di “opportuno” – che come vedevamo prima è piuttosto neutro, scivolare nel più impervio terreno dell’opportunismo.
Anche in questo caso, desidero richiamare la Treccani:
Comportamento per cui, nella vita privata o pubblica, o nell’azione politica, si ritiene conveniente rinunciare a principî o ideali, e si scende spregiudicatamente a compromessi per tornaconto o comunque per trarre il massimo vantaggio dalle condizioni e dalle opportunità del momento.
Pensateci bene. Pensate a tutte le volte che avete deciso di deviare dai binari prestabiliti per seguire ciò che vi diceva la vostra voce interiore. Qual è stata la prima domanda che parenti e amici vi hanno posto? Ve lo ricordate? So che sorriderete, leggendo ciò che scriverò, perché credo ci siate passati tutti; ci sono passata anch’io: “Ti conviene?” Ecco cosa ci chiedono. Non: “ti rende felice?”. Non: “il nuovo lavoro ti piace?”. Non: “Sei davvero innamorat*?”. No. Loro ti spingono a farti i conti in tasca, ad accettare ciò che ti fa del male solo perché ti dà stabilità, a non uscire dalla zona comfort perché non sai cosa ci sarà dall’altra parte. Al massimo, quando capiscono che cambierai idea, se la cavano con un politicamente corretto: “se sei content* tu.” Ma continuano a non crederci.
È vero che, per citare Bauman, negli ultimi anni i bisogni espressivi (ovvero realizzazione di sé e benessere pisco-fisico) stanno avendo la meglio sui bisogni materialisti (riconoscimento sociale e stabilità economica) ma la strada da percorrere affinché l’immutabilità delle proprie condizioni cessi di essere un valore è ancora lunga. La maggior parte delle persone che conosco (me compresa, a volte) ha una fortissima resistenza al cambiamento e non sa cogliere tutto il potenziale evolutivo contenuto nella decisione di tagliare dei rami secchi, cambiare lavoro, partner o città, tagliarsi i capelli o farsi un tatuaggio, per riuscire a essere se stessi al 100%.
Io mi ritengo una persona molto fortunata perché sono andata via di casa a diciotto anni, sono passata dalla provincia ligure a una metropoli, ho frequentato un corso di Laurea che ai tempi era solo in tre città, e questo mi ha messa in contatto con persone molto diverse tra loro provenienti da tutt’Italia, molte delle quali non erano accettate da quelli che benpensano (cit). Ho avuto amici omosessuali quando ancora il coming out era per molti un miraggio. Ho avuto un cugino, figlio di un luminare della medicina, che ha lasciato la facoltà di Economia per trasferirsi a Rocca Verano, allevare capre e produrre robiole. Ho avuto una vicina di casa che faceva la escort e mi dava le chiavi di casa quando la mia coinquilina, che pure andava in chiesa tutti i giorni, voleva buttarmi fuori per ospitare gli amici. Sono fortunata perché ho fatto sia la modella in un’accademia per parrucchieri, sia la volontaria nelle periferie milanesi, perché ho visto tutte le luci e tutte le ombre della città. Sono fortunata perché ho viaggiato tanto e ho capito che Sanremo è il buco del culo del mondo, che siamo solo una goccia nel mare, che nel mondo c’è una varietà di persone, stili di vita e situazioni pressoché inimmaginabile. E allora che facciamo? Li giudichiamo tutti? Sono fortunata anche perché ho vissuto situazioni che all’inizio mi hanno fatto soffrire, ma che alla lunga si sono rivelate le migliori sia per me, sia per coloro che mi amano, e che amo.
Per esempio, mi ritengo fortunata perché i miei genitori hanno divorziato, dopo sette anni di separazione in casa, anziché costringersi in una relazione senza amore e allevare me e mia sorella in un clima di freddezza, di ipocrisia. Avevo dodici anni, allora. E voi direte: “ma che fortuna è?”. Sì, è una fortuna. Perché da quasi trent’anni faccio parte di una famiglia allargata meravigliosa. Perché sono cresciuta con due genitori che, seppur divisi, erano – e sono – persone stabili e serene, che mantenevano – e mantengono – rapporti civili. Tra loro. Perché ho capito che il volersi bene unisce le persone più di una firma su un foglio, del vivere sotto lo stesso tetto, o di un conto in comune. Ed è per questo, forse, che sono così tollerante verso le famiglie atipiche, monogenitoriali, omogenitoriali o poliamorose: non sempre l’amore etero e legalizzato vince. A volte, tra persone di buon senso, si possono creare legami altrettanto solidi, e allevare minorenni che diventeranno adulti equilibrati, anche quando si vive fuori dai “valori” (le virgolette sono d’obbligo) imposti da un senso comune ormai diventato obsoleto.
L’importante è avere i propri, di valori.
Etici, morali, sociali.
Perché è solo la consapevolezza di ciò in cui si crede che consente di andare avanti anche quando il mondo sembra remarci contro. E vi dirò di più: nonostante ogni sei o sette anni finisca in terapia per qualche decisione “inopportuna” che dovrei prendere e non ne ho il coraggio, ogni volta che mi scaglio contro un giudizio o un dito puntato, io mi rafforzo e prendo sempre più coscienza di me stessa. Ma soprattutto, e questo mi rende molto felice, non mi sono mai pentita delle mie scelte, che sul lungo periodo si sono rivelate le più adatte a me. Anzi: le più opportune! Anche per i miei iniziali detrattori.
Car* mi*, siamo talmente abituati a vivere come leoni in una gabbia di regole e di schemi, che ci siamo dimenticati di un fatto importantissimo: se sappiamo mettere a tacere quel mentale burino che ci ronza nelle orecchie, la nostra guida interiore può diventare infallibile. Okay, ci spaventa il dolore. Ne abbiamo paura. Ma a volte occorre essere relativisti e comprende che, per rinascere dalle nostre ceneri, può essere necessario chiudere porte che vorremmo tenere socchiuse per sempre. Che per eliminare ciò che abbiamo represso in passato dobbiamo versare lacrime amare su un cuscino. Che se ci sentiamo in prigione, ci possono essere altre persone rinchiuse insieme a noi, e lasciandole le liberiamo. Che per ricostruire occorre distruggere. Ma ad andarsene, alla fine, sarà solo ciò che ciò che non ci serve, o che ci nuoce, perché la base di ciò che siamo non la toccherà nessuno. I nostri ideali. I nostri valori. Possiamo essere – e lo siamo, e lo saremo – persone per bene anche se non siamo allineate al sistema, perché nessuno può donare agli altri, e dare un valore aggiunto alla società, come chi è riuscito a fare pace con se stesso. E se qualcuno ci volterà le spalle, chissenefrega. Sembrerà una banalità, ma chi ama non giudica, ti sta accanto a prescindere. Di questo, sono fermamente convinta. Sembrerà banale dire che chi non mi vuole non mi merita. Però è così.
E qui scivoliamo nell’ultimo termine da analizzare: opportunità.
La presenza di una o più circostanze o di condizioni appropriate o favorevoli al concretarsi di un’azione.
L’opportunità ci può parlare anche di convenienza e di interesse personale, ma non è quello il fulcro di questa parola, la cui energia intrinseca è per me immensa. L’opportunità è un regalo, un dono che la vita ci fa e che non sempre riusciamo a cogliere: quello di poter seguire la strada che desideriamo, e diventare quindi una versione più evoluta di noi stessi. Anche le decisioni che ci terrorizzano sono un dono. E anche la sensazione di fare un salto nel vuoto. Se una forza impossibile da spiegare e alla quale non riusciamo a dare un nome ci muove con forza verso nuovi binari significa che quei sogni e quei desideri ci appartengono di diritto. Quindi, anche quando sembrano irrealizzabili, troveranno la via per raggiungerci e diventare concreti. Non importa quanto tempo impiegheranno. Possono volerci anni, ma intanto che fretta c’è? Io ve lo assicuro. L’ho sperimentato sulla mia pelle. Quella forza che ci muove, e che non riusciamo a definire, in realtà un nome ce l’ha: amore. Che sia rivolta a noi stessi, a un lavoro, a un ideale, a un altro essere umano o all’umanità intera, non importa. Non ci farà sbagliare mai.
E come buon auspicio per il Natale vi auguro proprio questo: di saperlo cercare, l’amore. Di saperlo seguire. E di lasciarlo vincere. Perché se lo merita.