Se ti dai una calmata…ti spiego cos’è il tone policing

In questi ultimi anni il nostro blog ha trattato diverse tematiche relative alla discriminazione, se non addirittura manipolazione e marginalizzazione, delle fasce sociali discriminate. E, nonostante molti sostengano che noi donne siamo trattate esattamente come gli uomini, esistono ancora molti strumenti di cui il patriarcato si serve per portare il flusso comunicativo dalla propria parte. Uno di questi, è il cosiddetto tone policing.

Cos’è il tone policing?

ll tone policing è una forma sottile e subdola di aggressione verbale messa in atto – a volte inconsciamente – quando una persona che si trova in una posizione di vantaggio sociale ma di debolezza per quanto concerne le proprie argomentazioni, non avendo argomenti per zittire l’interlocutorə, cerca di metterlo a tacere facendo perno sulla presunta aggressività dei suoi toni.

Moltə potrebbero come sempre obiettare che noi donne vediamo il marcio in tutto, che zittire una persona mentre parla è semplice maleducazione, a prescindere dal genere di chi interrompe e di chi è interrottə. Altrə potrebbero sostenere che non è questione di genere, ma di ruoli sociali: anche i professori zittiscono gli studenti; anche i dirigenti zittiscono gli impiegati; i genitori i figli, e così via.

Fermo restando che anche togliere l’opportunità di parola a un allievo o a un dipendente è una forma di prevaricazione, anche con il tone policing la minoranza femminile risulta particolarmente vessata. Perché alla base del tone policing c’è uno stereotipo duro a morire: gli uomini sono razionali e le donne emotive.

Immagino sia facile discutere pacatamente con le braccia incrociate sul petto e i piedi sulla scrivania quando si ricopre un ruolo di potere, quando appena apri bocca tuttə si inchinano al tuo cospetto. Ma quando una persona si trova ad affrontare tematiche delicate e non viene ascoltatə è inevitabile che si arrabbi.Basti pensare alle varie diatribe sul cat calling: quando mai un uomo le ha prese sul serio?Quante volte siamostate costrette ad alzare la voce per avere attenzione, per farci ascoltare, per veicolare un messaggio? Perché ci provi, a esprimerti in modo pacato. Ma davanti a sorrisi di condiscendenza, a vaghi tentativi di spostare il discorso, prima o poi la pazienza si perde. Capita anche agli uomini. Cioè, Beppe Grillo non urla? Ma un uomo che difende i propri ideali è forte, assertivo e determinato. Una donna, invece, è soltanto un’isterica.

Già.

Isterica.

Questa è la frase che tutte le femministe hanno sentito almeno una volta nella vita: “Ma voi siete sempre incazzate? Ma fatevela una risata ogni tanto, buahahahahah.”

E ogni dibattito – specialmente se avviene con un uomo, o dinnanzi una platea di uomini, è costellato da espressioni come quelle che seguono, il cui solo risultato è quello di farci inalberare ancora di più:

“Prima ti calmi, poi parliamo”;

“Sei troppo coinvolta”;

“Sei in grado di esprimere un’opinione senza urlare?”

“Pensi che tutti ce l’abbiano con te”;

“Hai le manie di persecuzione”.

Nessun cenno, come potete notare, al contenuto della comunicazione, che passa del tutto in secondo piano. L’interlocoturə cafone infatti non ha alcun interesse ad ascoltare ciò che l’altra ha da dire, né argomentazioni con cui controbattere. Quindi,per delegittimare l’interlocutore, si fa perno su una presunta aggressività dei toni. O sul cliché della donna inacidita. Perché non tromba. Infatti, un altro degli altri baluardi inalienabili del maschilista latino è che noi urliamo perché abbiamo un gran bisogno di…

Di.

E guardate, ragazze, a me dispiace quasi che questo blog sia seguito prevalentemente da donne. Mi piacerebbe un bel dibattito stile leoni da tastiera solo per sentire la frase:

“Mi sa che adesso stai esagerando”.

E poter rispondere: “Ecco, hai visto che ho ragione?”

Perché uno degli strumenti maggiormente utilizzati dai “moderatori di dialogo” è intervenire in battaglie che non lo riguardano direttamente, cercando di spiegare all’altro non solo cosa dire, ma anche come dirlo.

E non vogliamo considerare il tone policing un atto di violenza?

Per me lo è. Eccome!

Chi fa tone policing è lo stolto che guarda il dito anziché la luna, perché prestando attenzione solo alle modalità comunicative delegittima automaticamente il contenuto. Rifiuta di ascoltare. Modera gli altri, ma non se stesso. E pertanto sceglie di mantenere viva una dinamica di potete che tende a silenziare le minoranze, anziché adoperarsi per amplificare le loro voci.

Per tale ragione, il tone policing va combattuto.

Occorre imparare a riconoscerlo, sia quando lo subiamo, sia quando lo mettiamo in atto nei confronti di altre persone (ebbene sì: può capitare anche a noi). Ma soprattutto occorre imparare a legittimare le proprie emozioni anche quando il capo, un partner, un amico o la società intera cerca di screditarle. Nessuno ama farsi fagocitare dalla rabbia, o dalla frustrazione, ma quando queste emozioni sono presenti è necessario esprimerle senza timore, per poterle prima comprendere e poi superare. E chi abbiamo di fronte ha il sacrosanto dovere di ascoltarle, anche se non è d’accordo, anche se non gli piacciono.

Opportuno, opportunismo, opportunità

Ci sono parole all’apparenza innocenti che hanno il potere di aprirti una crepa dentro, dalla quale poi fuoriesce tutta la merda che hai accumulato lungo il corso della tua vita. E questa merda non va lasciata galleggiare in superficie, ma ripulita nel modo che si ritiene più consono. Io lo faccio scrivendo. Ed è per questo che oggi voglio condividere una riflessione scomoda senza il timore di sporcarmi le mani o di turbare i benpensanti.

Il termine incriminato è: opportuno.

Partiamo dalla definizione che ne dà il dizionario:

Che viene a proposito, che è adatto alle condizioni del momento, alle necessità o al desiderio.

Nulla da eccepire, direi. Il problema è che tale definizione non è solo una frasetta scritta su un’enciclopedia ma viene presa e applicata alla nostra realtà sociale. Viene messa lì, su un comò, dove tutti possono vederla. Viene condita da norme e regole non scritte che fanno pendere la bilancia verso i primi due termini dell’assunto (condizioni e necessità) ma non verso il terzo: il desiderio. Di chi? Dell’individuo chiamato a valutare cosa sia opportuno o cosa no, oppure di una collettività più interessata a mantenere lo status quo che a garantire il benessere e la felicità di chi ne fa parte? Il fatto che il governo stia di nuovo sbarellando su aborto e unioni civili dimostra che spesso la definizione di “opportuno” è in mano a una maggioranza conformista e alle sue regole non scritte, che i sociologi chiamano “senso comune”, gli esoteristi “inconscio collettivo” e io, che per tutta la vita sono stata considerata un’outsider, ho sempre definito “sindrome della pecora”. Perché purtroppo, in questo mondo, rimane ben poco spazio per la coscienza, per i sentimenti individuali. Siamo intrappolati in un universo che divide tutto in bianco o nero, in giusto” e “sbagliato, sulla base di canoni obsoleti, di valori che sono stati calati sulle nostre teste come una spada di Damocle, e che abbiamo tutta la libertà di rifiutare. Sì, ce l’abbiamo. Ma il nostro bisogno di approvazione ci fa credere di no.

Perché non è facile accettare di muoversi controcorrente. Ve lo dice una che ha passato tutta la vita a barcamenarsi tra due tendenze contrapposte: da un lato, il timore di deludere la propria famiglia (piuttosto tradizionalista, direi) e i loro valori; dall’altro, il desiderio di seguire un’intuizione che non mi ha mai ingannata, nemmeno quando mi ha obbligata a prendere decisioni impopolari.

È facile, infatti, dal concetto di “opportuno” – che come vedevamo prima è piuttosto neutro, scivolare nel più impervio terreno dell’opportunismo.

Anche in questo caso, desidero richiamare la Treccani:

Comportamento per cui, nella vita privata o pubblica, o nell’azione politica, si ritiene conveniente rinunciare a principî o ideali, e si scende spregiudicatamente a compromessi per tornaconto o comunque per trarre il massimo vantaggio dalle condizioni e dalle opportunità del momento.

Pensateci bene. Pensate a tutte le volte che avete deciso di deviare dai binari prestabiliti per seguire ciò che vi diceva la vostra voce interiore. Qual è stata la prima domanda che parenti e amici vi hanno posto? Ve lo ricordate? So che sorriderete, leggendo ciò che scriverò, perché credo ci siate passati tutti; ci sono passata anch’io: “Ti conviene?” Ecco cosa ci chiedono. Non: “ti rende felice?”. Non: “il nuovo lavoro ti piace?”. Non: “Sei davvero innamorat*?”. No. Loro ti spingono a farti i conti in tasca, ad accettare ciò che ti fa del male solo perché ti dà stabilità, a non uscire dalla zona comfort perché non sai cosa ci sarà dall’altra parte. Al massimo, quando capiscono che cambierai idea, se la cavano con un politicamente corretto: “se sei content* tu.” Ma continuano a non crederci.

È vero che, per citare Bauman, negli ultimi anni i bisogni espressivi (ovvero realizzazione di sé e benessere pisco-fisico) stanno avendo la meglio sui bisogni materialisti (riconoscimento sociale e stabilità economica) ma la strada da percorrere affinché l’immutabilità delle proprie condizioni cessi di essere un valore è ancora lunga. La maggior parte delle persone che conosco (me compresa, a volte) ha una fortissima resistenza al cambiamento e non sa cogliere tutto il potenziale evolutivo contenuto nella decisione di tagliare dei rami secchi, cambiare lavoro, partner o città, tagliarsi i capelli o farsi un tatuaggio, per riuscire a essere se stessi al 100%.

Io mi ritengo una persona molto fortunata perché sono andata via di casa a diciotto anni, sono passata dalla provincia ligure a una metropoli, ho frequentato un corso di Laurea che ai tempi era solo in tre città, e questo mi ha messa in contatto con persone molto diverse tra loro provenienti da tutt’Italia, molte delle quali non erano accettate da quelli che benpensano (cit). Ho avuto amici omosessuali quando ancora il coming out era per molti un miraggio. Ho avuto un cugino, figlio di un luminare della medicina, che ha lasciato la facoltà di Economia per trasferirsi a Rocca Verano, allevare capre e produrre robiole. Ho avuto una vicina di casa che faceva la escort e mi dava le chiavi di casa quando la mia coinquilina, che pure andava in chiesa tutti i giorni, voleva buttarmi fuori per ospitare gli amici. Sono fortunata perché ho fatto sia la modella in un’accademia per parrucchieri, sia la volontaria nelle periferie milanesi, perché ho visto tutte le luci e tutte le ombre della città. Sono fortunata perché ho viaggiato tanto e ho capito che Sanremo è il buco del culo del mondo, che siamo solo una goccia nel mare, che nel mondo c’è una varietà di persone, stili di vita e situazioni pressoché inimmaginabile. E allora che facciamo? Li giudichiamo tutti? Sono fortunata anche perché ho vissuto situazioni che all’inizio mi hanno fatto soffrire, ma che alla lunga si sono rivelate le migliori sia per me, sia per coloro che mi amano, e che amo.

Per esempio, mi ritengo fortunata perché i miei genitori hanno divorziato, dopo sette anni di separazione in casa, anziché costringersi in una relazione senza amore e allevare me e mia sorella in un clima di freddezza, di ipocrisia. Avevo dodici anni, allora. E voi direte: “ma che fortuna è?”. Sì, è una fortuna. Perché da quasi trent’anni faccio parte di una famiglia allargata meravigliosa. Perché sono cresciuta con due genitori che, seppur divisi, erano – e sono – persone stabili e serene, che mantenevano – e mantengono – rapporti civili. Tra loro. Perché ho capito che il volersi bene unisce le persone più di una firma su un foglio, del vivere sotto lo stesso tetto, o di un conto in comune. Ed è per questo, forse, che sono così tollerante verso le famiglie atipiche, monogenitoriali, omogenitoriali o poliamorose: non sempre l’amore etero e legalizzato vince. A volte, tra persone di buon senso, si possono creare legami altrettanto solidi, e allevare minorenni che diventeranno adulti equilibrati, anche quando si vive fuori dai “valori” (le virgolette sono d’obbligo) imposti da un senso comune ormai diventato obsoleto.

L’importante è avere i propri, di valori.

Etici, morali, sociali.

Perché è solo la consapevolezza di ciò in cui si crede che consente di andare avanti anche quando il mondo sembra remarci contro. E vi dirò di più: nonostante ogni sei o sette anni finisca in terapia per qualche decisione “inopportuna” che dovrei prendere e non ne ho il coraggio, ogni volta che mi scaglio contro un giudizio o un dito puntato, io mi rafforzo e prendo sempre più coscienza di me stessa. Ma soprattutto, e questo mi rende molto felice, non mi sono mai pentita delle mie scelte, che sul lungo periodo si sono rivelate le più adatte a me. Anzi: le più opportune! Anche per i miei iniziali detrattori.

Car* mi*, siamo talmente abituati a vivere come leoni in una gabbia di regole e di schemi, che ci siamo dimenticati di un fatto importantissimo: se sappiamo mettere a tacere quel mentale burino che ci ronza nelle orecchie, la nostra guida interiore può diventare infallibile. Okay, ci spaventa il dolore. Ne abbiamo paura. Ma a volte occorre essere relativisti e comprende che, per rinascere dalle nostre ceneri, può essere necessario chiudere porte che vorremmo tenere socchiuse per sempre. Che per eliminare ciò che abbiamo represso in passato dobbiamo versare lacrime amare su un cuscino. Che se ci sentiamo in prigione, ci possono essere altre persone rinchiuse insieme a noi, e lasciandole le liberiamo. Che per ricostruire occorre distruggere. Ma ad andarsene, alla fine, sarà solo ciò che ciò che non ci serve, o che ci nuoce, perché la base di ciò che siamo non la toccherà nessuno. I nostri ideali. I nostri valori. Possiamo essere – e lo siamo, e lo saremo – persone per bene anche se non siamo allineate al sistema, perché nessuno può donare agli altri, e dare un valore aggiunto alla società, come chi è riuscito a fare pace con se stesso. E se qualcuno ci volterà le spalle, chissenefrega. Sembrerà una banalità, ma chi ama non giudica, ti sta accanto a prescindere. Di questo, sono fermamente convinta. Sembrerà banale dire che chi non mi vuole non mi merita. Però è così.

E qui scivoliamo nell’ultimo termine da analizzare: opportunità.

La presenza di una o più circostanze o di condizioni appropriate o favorevoli al concretarsi di un’azione.

L’opportunità ci può parlare anche di convenienza e di interesse personale, ma non è quello il fulcro di questa parola, la cui energia intrinseca è per me immensa. L’opportunità è un regalo, un dono che la vita ci fa e che non sempre riusciamo a cogliere: quello di poter seguire la strada che desideriamo, e diventare quindi una versione più evoluta di noi stessi. Anche le decisioni che ci terrorizzano sono un dono. E anche la sensazione di fare un salto nel vuoto. Se una forza impossibile da spiegare e alla quale non riusciamo a dare un nome ci muove con forza verso nuovi binari significa che quei sogni e quei desideri ci appartengono di diritto. Quindi, anche quando sembrano irrealizzabili, troveranno la via per raggiungerci e diventare concreti. Non importa quanto tempo impiegheranno. Possono volerci anni, ma intanto che fretta c’è? Io ve lo assicuro. L’ho sperimentato sulla mia pelle. Quella forza che ci muove, e che non riusciamo a definire, in realtà un nome ce l’ha: amore. Che sia rivolta a noi stessi, a un lavoro, a un ideale, a un altro essere umano o all’umanità intera, non importa. Non ci farà sbagliare mai.

E come buon auspicio per il Natale vi auguro proprio questo: di saperlo cercare, l’amore. Di saperlo seguire. E di lasciarlo vincere. Perché se lo merita.

L’utopia della libertà: Alessia Piperno

Alessia Piperno, 30 anni appena compiuti, romana, globe trotter, è stata arrestata il 28 settembre insieme ad altri amici di varie nazionalità europee in Iran, paese in cui si trovava da circa due mesi. E’ il padre a dare l’allarme, non la sentiva da quattro giorni e poi ha ricevuto una telefonata dalla stessa Alessia che chiedeva aiuto da una prigione di Teheran.

Le circostanze che hanno portato all’arresto non sono chiare, si ipotizza che il regime Iraniano l’abbia scambiata per un’attivista delle recenti proteste per la morte di Mahsa Amini che stanno scuotendo il paese, oppure che la ragione sia la festa di compleanno organizzata per i suoi 30 anni con torta, amici, palloncini dorati e cappellini da festa (in Iran è vietato per legge festeggiare il compleanno in alcuni luoghi e soprattutto in modo vistoso). Altri credono in una segnalazione partita da un Iraniano che l’aveva aiutata ad allungare il permesso di soggiorno poco tempo prima.

I media iniziano a diffondere la notizia e i social danno voce all’opinione pubblica. Tra gli accorati appelli per la sua liberazione e le dimostrazioni di solidarietà alla famiglia spuntano le critiche che la vogliono dipingere come un’avventata ragazza che se l’è andata a cercare, giudicando le sue azioni e il suo viaggiare da sola in giro per il mondo. Sinceramente ho pensato: “Ecco la colpevolizzazione della vittima che ci permette di sentirci più sicuri nelle nostre piccole vite.”.

Se non fosse in viaggio da sola, da sette anni ma in vacanza da 15 giorni con la famiglia e avesse fatto le stesse cose forse nessuno la giudicherebbe? Se fosse un uomo, come Alberto Angela rapito in Niger nel 2022, forse nessuno direbbe che è colpa sua?

Oppure a prescindere è giusto pensare che uomo o donna, in questo momento storico l’Iran non è una meta consigliata per il popolo occidentale e che Alessia ha inanellato troppe ingenuità?

Di sicuro, se ci sono delle colpe di Alessia, una è quella di essere una viaggiatrice in un mondo dove l’indipendenza delle donne e parte degli stessi diritti umani sono palesemente negati, come in Iran, o comunque mai davvero acquisiti fino in fondo e dati per scontati, come in Italia. Come la democrazia anche la libertà negli ultimi anni si sta dimostrando un’utopia.

Ho deciso di guardare i sette anni di viaggio che questa ragazza ha condiviso sui social dall’account Instagram @travel.adventure.freedom e soprattutto di leggere le sue parole, per provare ad intravedere chi è Alessia.

Nel 2016 è partita da Roma per l’Australia, una ragazza con uno zaino e uno smartphone che fa le cose che fanno tutti i ragazzi in viaggio, fotografa scorci di natura e città, animali, cibo e monumenti.

Dall’Australia a Samoa, da Bali all’India, dallo Sri Lanka all’Islanda, da Panama all’Honduras, dal Marocco al Pakistan ed infine all’Iran.

La mia impressione è che Alessia sia partita come una ragazza di 23 anni che cerca se stessa lontano da casa e fotografa tramonti e animali, centrata più su di sé, come è giusto che sia, tormentata dal capirsi, dal cercare di scoprire il perché brama il viaggio, il perché non riesce a stare ferma in un luogo.

Nel tempo il tenore delle sue foto e dei suoi testi muta, evolve, diventa una globe trotter che si immerge e si fa riempire dalla vita dei paesi che visita, non più solo una turista, accoglie il cibo, le usanze, la cultura e le fragilità, fotografa bimbi, donne, villaggi, povertà ma anche tanti occhi felici. A volte è senza soldi, dorme in tenda e deve trovare un lavoro anche da 14 ore al giorno per pagarsi il prossimo viaggio, soffre terribilmente nel sentirsi incastrata in una realtà convenzionale, ma cresce, conosce, capisce le realtà e le culture a cui si avvicina, tra l’altro sempre con estrema delicatezza.

Alessia scrive “Non sono andata via dall’Italia per cercare un posto migliore della mia città, non sono andata ai tropici e nemmeno in un posto in cui la gente potrebbe invidiarmi, invece dire che ho deciso che viaggiare per me vuol dire andare in un posto diverso da casa tua, e viverlo, cosa che non è sempre piacevole.”.

Ed infine a luglio di quest’anno arriva in Iran, affascinata dal paese, ignara che le cose possano precipitare tanto velocemente scrive: “Tante persone credono a qualsiasi propaganda sentita dai media su quanto sia pericoloso viaggiare in questa terra. Ecco, fatemi il piacere, buttatela la televisione.”

Poche settimane dopo invece, rimane profondamente colpita da quello che vede intorno a sé, dalle proteste per la libertà delle donne Iraniane, e il 26 settembre scrive “Eppure per quanto possa essere la decisione più saggia da prendere, io non ci riesco (si riferisce a lasciare l’Iran n.d.a.). […] Noi europei non sappiamo nulla di questa gente […] stanno manifestando per la loro libertà […] “Non hai paura?” ho chiesto ad Hamid pochi giorni fa, prima che uscisse a protestare, “Certo che ho paura, ma se continuiamo a vivere nella paura e nel silenzio, non vedremo mai la libertà”. E così, in Iran, Alessia capisce che è fortunata, solo per essere nata in Italia e che dopo aver preso tanto dal mondo vuole sdebitarsi, donando agli altri tutta l’energia che la muove: decide il giorno del suo compleanno che a breve partirà per andare in Pakistan a ricostruire un villaggio distrutto dall’alluvione. Anche qui scorgo un’evoluzione.

Alessia ha sempre rispettato le usanze del paese in cui si trovava, capo coperto compreso, ha però pensato di poter scambiare qualche parola con chi partecipava alle manifestazioni, non essendoci lei andata in prima persona, ha anche pensato di poter scrivere sui social italiani, nella sua lingua, quello che vedeva e le raccontavano, ha addirittura pensato di poter festeggiare il suo compleanno. Lo ha pensato, perché riteneva erroneamente di essere libera.

A.P.