RICOMINCIAMENTI – intervista a Edy Santamaria

Gennaio è, per antonomasia, il mese dei buoni propositi e terreno fertile per nuovi progetti e quest’anno mi trova a riflettere su quante volte le donne, per necessità o per volontà, debbano periodicamente rinnovarsi e ricominciare da capo: sia questo un vero e proprio cambiamento esteriore (vita, lavoro, famiglia, casa…) o solo interiore, profondo, nascosto ma decisivo.

Ho deciso di parlarne con Edy Santamaria, amica, artista e campionessa olimpionica di ricominciamenti!

Tu come ti sei ricominciata nella vita?

“Ho ricominciato molte volte nella mia vita partendo da quando ero ancora ragazzina, volendo prima reagire ai cambiamenti fisici che mi mettevano a disagio e che mi hanno fatto cadere nella trappola dei disturbi alimentari, poi volendo allontanarmi da una vita familiare che mi stava stretta: ho preso decisioni drastiche e importanti di cui ho anche pagato le conseguenze ma di cui mi sono assunta la responsabilità. Sempre accompagnata dall’anoressia, mi sono allontanata da un matrimonio fallito in partenza con la mia bimba piccolissima, trovando, anche per lei, sempre la forza e il modo di ricominciare, spostandomi continuamente e lavorando sodo”

“VITA” – ritratto carbothello su carta pastelmat

L’arte che ruolo ha avuto in tutto questo?

“L’arte è stata il filo conduttore della mia vita, passione nata nello studio di mio zio Mimì, la musica di sottofondo e la mia valvola di sfogo, il mio diario segreto dall’età di 11 anni. Abbiamo tutti bisogno di esprimere emozioni, soprattutto quelle più forti, ed io ho sempre usato la tela preferibilmente di grandi dimensioni e dipinta ad olio, in cui riversavo soprattutto le emozioni negative, per questo motivo per la maggior parte, i miei quadri non sono decisamente “da arredo” dato il loro contenuto forte. Tempo fa fondai l’associazione “Artesenzaconfini” con la quale ho organizzato mostre ed eventi. Oggi sono mamma di tre splendidi figli e anche nonna, continuo a formarmi sulla tecnica pittorica ed ho di recente avuto l’abilitazione come arteterapeuta proseguendo all’interno del mio studio, con i laboratori di disegno e pittura sia per bambini che per adulti.

Tanti tuoi quadri sono legati al mondo femminile…cosa ami delle donne?

“Il mio primo dipinto ad olio rappresentava una donna e da sempre le donne sono al centro della mia ricerca artistica e sociale: ho sempre tenuto molto a portare testimonianza del mio vissuto, anche di violenza di cui porto le conseguenze fisiche che mi impediscono da tempo di realizzare le grandi tele che amavo e promuovo movimenti ed associazioni in particolare per la prevenzione della violenza sulle donne, perché la consapevolezza è la prima vera arma contro questo fenomeno, sto lavorando anche ad un nuovo progetto di volontariato proprio su queste tematiche di cui potremo parlare in futuro.

Delle donne amo la forza, che spesso si nasconde tra le lacrime, ma che sempre ci spinge a trovare altre strade e non lasciarci mai a terra nonostante i duri colpi della vita”

Opera presentata al Teatro dell’albero di San Lorenzo al mare in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne a Novembre 2022

Se volete seguire Edy la trovate su Facebook cercate A casa di Edy (labottegadiedy@gmail.com)

Se ti dai una calmata…ti spiego cos’è il tone policing

In questi ultimi anni il nostro blog ha trattato diverse tematiche relative alla discriminazione, se non addirittura manipolazione e marginalizzazione, delle fasce sociali discriminate. E, nonostante molti sostengano che noi donne siamo trattate esattamente come gli uomini, esistono ancora molti strumenti di cui il patriarcato si serve per portare il flusso comunicativo dalla propria parte. Uno di questi, è il cosiddetto tone policing.

Cos’è il tone policing?

ll tone policing è una forma sottile e subdola di aggressione verbale messa in atto – a volte inconsciamente – quando una persona che si trova in una posizione di vantaggio sociale ma di debolezza per quanto concerne le proprie argomentazioni, non avendo argomenti per zittire l’interlocutorə, cerca di metterlo a tacere facendo perno sulla presunta aggressività dei suoi toni.

Moltə potrebbero come sempre obiettare che noi donne vediamo il marcio in tutto, che zittire una persona mentre parla è semplice maleducazione, a prescindere dal genere di chi interrompe e di chi è interrottə. Altrə potrebbero sostenere che non è questione di genere, ma di ruoli sociali: anche i professori zittiscono gli studenti; anche i dirigenti zittiscono gli impiegati; i genitori i figli, e così via.

Fermo restando che anche togliere l’opportunità di parola a un allievo o a un dipendente è una forma di prevaricazione, anche con il tone policing la minoranza femminile risulta particolarmente vessata. Perché alla base del tone policing c’è uno stereotipo duro a morire: gli uomini sono razionali e le donne emotive.

Immagino sia facile discutere pacatamente con le braccia incrociate sul petto e i piedi sulla scrivania quando si ricopre un ruolo di potere, quando appena apri bocca tuttə si inchinano al tuo cospetto. Ma quando una persona si trova ad affrontare tematiche delicate e non viene ascoltatə è inevitabile che si arrabbi.Basti pensare alle varie diatribe sul cat calling: quando mai un uomo le ha prese sul serio?Quante volte siamostate costrette ad alzare la voce per avere attenzione, per farci ascoltare, per veicolare un messaggio? Perché ci provi, a esprimerti in modo pacato. Ma davanti a sorrisi di condiscendenza, a vaghi tentativi di spostare il discorso, prima o poi la pazienza si perde. Capita anche agli uomini. Cioè, Beppe Grillo non urla? Ma un uomo che difende i propri ideali è forte, assertivo e determinato. Una donna, invece, è soltanto un’isterica.

Già.

Isterica.

Questa è la frase che tutte le femministe hanno sentito almeno una volta nella vita: “Ma voi siete sempre incazzate? Ma fatevela una risata ogni tanto, buahahahahah.”

E ogni dibattito – specialmente se avviene con un uomo, o dinnanzi una platea di uomini, è costellato da espressioni come quelle che seguono, il cui solo risultato è quello di farci inalberare ancora di più:

“Prima ti calmi, poi parliamo”;

“Sei troppo coinvolta”;

“Sei in grado di esprimere un’opinione senza urlare?”

“Pensi che tutti ce l’abbiano con te”;

“Hai le manie di persecuzione”.

Nessun cenno, come potete notare, al contenuto della comunicazione, che passa del tutto in secondo piano. L’interlocoturə cafone infatti non ha alcun interesse ad ascoltare ciò che l’altra ha da dire, né argomentazioni con cui controbattere. Quindi,per delegittimare l’interlocutore, si fa perno su una presunta aggressività dei toni. O sul cliché della donna inacidita. Perché non tromba. Infatti, un altro degli altri baluardi inalienabili del maschilista latino è che noi urliamo perché abbiamo un gran bisogno di…

Di.

E guardate, ragazze, a me dispiace quasi che questo blog sia seguito prevalentemente da donne. Mi piacerebbe un bel dibattito stile leoni da tastiera solo per sentire la frase:

“Mi sa che adesso stai esagerando”.

E poter rispondere: “Ecco, hai visto che ho ragione?”

Perché uno degli strumenti maggiormente utilizzati dai “moderatori di dialogo” è intervenire in battaglie che non lo riguardano direttamente, cercando di spiegare all’altro non solo cosa dire, ma anche come dirlo.

E non vogliamo considerare il tone policing un atto di violenza?

Per me lo è. Eccome!

Chi fa tone policing è lo stolto che guarda il dito anziché la luna, perché prestando attenzione solo alle modalità comunicative delegittima automaticamente il contenuto. Rifiuta di ascoltare. Modera gli altri, ma non se stesso. E pertanto sceglie di mantenere viva una dinamica di potete che tende a silenziare le minoranze, anziché adoperarsi per amplificare le loro voci.

Per tale ragione, il tone policing va combattuto.

Occorre imparare a riconoscerlo, sia quando lo subiamo, sia quando lo mettiamo in atto nei confronti di altre persone (ebbene sì: può capitare anche a noi). Ma soprattutto occorre imparare a legittimare le proprie emozioni anche quando il capo, un partner, un amico o la società intera cerca di screditarle. Nessuno ama farsi fagocitare dalla rabbia, o dalla frustrazione, ma quando queste emozioni sono presenti è necessario esprimerle senza timore, per poterle prima comprendere e poi superare. E chi abbiamo di fronte ha il sacrosanto dovere di ascoltarle, anche se non è d’accordo, anche se non gli piacciono.

L’utopia della libertà: Alessia Piperno

Alessia Piperno, 30 anni appena compiuti, romana, globe trotter, è stata arrestata il 28 settembre insieme ad altri amici di varie nazionalità europee in Iran, paese in cui si trovava da circa due mesi. E’ il padre a dare l’allarme, non la sentiva da quattro giorni e poi ha ricevuto una telefonata dalla stessa Alessia che chiedeva aiuto da una prigione di Teheran.

Le circostanze che hanno portato all’arresto non sono chiare, si ipotizza che il regime Iraniano l’abbia scambiata per un’attivista delle recenti proteste per la morte di Mahsa Amini che stanno scuotendo il paese, oppure che la ragione sia la festa di compleanno organizzata per i suoi 30 anni con torta, amici, palloncini dorati e cappellini da festa (in Iran è vietato per legge festeggiare il compleanno in alcuni luoghi e soprattutto in modo vistoso). Altri credono in una segnalazione partita da un Iraniano che l’aveva aiutata ad allungare il permesso di soggiorno poco tempo prima.

I media iniziano a diffondere la notizia e i social danno voce all’opinione pubblica. Tra gli accorati appelli per la sua liberazione e le dimostrazioni di solidarietà alla famiglia spuntano le critiche che la vogliono dipingere come un’avventata ragazza che se l’è andata a cercare, giudicando le sue azioni e il suo viaggiare da sola in giro per il mondo. Sinceramente ho pensato: “Ecco la colpevolizzazione della vittima che ci permette di sentirci più sicuri nelle nostre piccole vite.”.

Se non fosse in viaggio da sola, da sette anni ma in vacanza da 15 giorni con la famiglia e avesse fatto le stesse cose forse nessuno la giudicherebbe? Se fosse un uomo, come Alberto Angela rapito in Niger nel 2022, forse nessuno direbbe che è colpa sua?

Oppure a prescindere è giusto pensare che uomo o donna, in questo momento storico l’Iran non è una meta consigliata per il popolo occidentale e che Alessia ha inanellato troppe ingenuità?

Di sicuro, se ci sono delle colpe di Alessia, una è quella di essere una viaggiatrice in un mondo dove l’indipendenza delle donne e parte degli stessi diritti umani sono palesemente negati, come in Iran, o comunque mai davvero acquisiti fino in fondo e dati per scontati, come in Italia. Come la democrazia anche la libertà negli ultimi anni si sta dimostrando un’utopia.

Ho deciso di guardare i sette anni di viaggio che questa ragazza ha condiviso sui social dall’account Instagram @travel.adventure.freedom e soprattutto di leggere le sue parole, per provare ad intravedere chi è Alessia.

Nel 2016 è partita da Roma per l’Australia, una ragazza con uno zaino e uno smartphone che fa le cose che fanno tutti i ragazzi in viaggio, fotografa scorci di natura e città, animali, cibo e monumenti.

Dall’Australia a Samoa, da Bali all’India, dallo Sri Lanka all’Islanda, da Panama all’Honduras, dal Marocco al Pakistan ed infine all’Iran.

La mia impressione è che Alessia sia partita come una ragazza di 23 anni che cerca se stessa lontano da casa e fotografa tramonti e animali, centrata più su di sé, come è giusto che sia, tormentata dal capirsi, dal cercare di scoprire il perché brama il viaggio, il perché non riesce a stare ferma in un luogo.

Nel tempo il tenore delle sue foto e dei suoi testi muta, evolve, diventa una globe trotter che si immerge e si fa riempire dalla vita dei paesi che visita, non più solo una turista, accoglie il cibo, le usanze, la cultura e le fragilità, fotografa bimbi, donne, villaggi, povertà ma anche tanti occhi felici. A volte è senza soldi, dorme in tenda e deve trovare un lavoro anche da 14 ore al giorno per pagarsi il prossimo viaggio, soffre terribilmente nel sentirsi incastrata in una realtà convenzionale, ma cresce, conosce, capisce le realtà e le culture a cui si avvicina, tra l’altro sempre con estrema delicatezza.

Alessia scrive “Non sono andata via dall’Italia per cercare un posto migliore della mia città, non sono andata ai tropici e nemmeno in un posto in cui la gente potrebbe invidiarmi, invece dire che ho deciso che viaggiare per me vuol dire andare in un posto diverso da casa tua, e viverlo, cosa che non è sempre piacevole.”.

Ed infine a luglio di quest’anno arriva in Iran, affascinata dal paese, ignara che le cose possano precipitare tanto velocemente scrive: “Tante persone credono a qualsiasi propaganda sentita dai media su quanto sia pericoloso viaggiare in questa terra. Ecco, fatemi il piacere, buttatela la televisione.”

Poche settimane dopo invece, rimane profondamente colpita da quello che vede intorno a sé, dalle proteste per la libertà delle donne Iraniane, e il 26 settembre scrive “Eppure per quanto possa essere la decisione più saggia da prendere, io non ci riesco (si riferisce a lasciare l’Iran n.d.a.). […] Noi europei non sappiamo nulla di questa gente […] stanno manifestando per la loro libertà […] “Non hai paura?” ho chiesto ad Hamid pochi giorni fa, prima che uscisse a protestare, “Certo che ho paura, ma se continuiamo a vivere nella paura e nel silenzio, non vedremo mai la libertà”. E così, in Iran, Alessia capisce che è fortunata, solo per essere nata in Italia e che dopo aver preso tanto dal mondo vuole sdebitarsi, donando agli altri tutta l’energia che la muove: decide il giorno del suo compleanno che a breve partirà per andare in Pakistan a ricostruire un villaggio distrutto dall’alluvione. Anche qui scorgo un’evoluzione.

Alessia ha sempre rispettato le usanze del paese in cui si trovava, capo coperto compreso, ha però pensato di poter scambiare qualche parola con chi partecipava alle manifestazioni, non essendoci lei andata in prima persona, ha anche pensato di poter scrivere sui social italiani, nella sua lingua, quello che vedeva e le raccontavano, ha addirittura pensato di poter festeggiare il suo compleanno. Lo ha pensato, perché riteneva erroneamente di essere libera.

A.P.