Maryam: storia di ordinaria violenza di genere

La storia di Maryam (nome di fantasia) è unica come lo è la vita di ognuno di noi ma, allo stesso tempo, è tragicamente comune.

È la storia di una donna che, ancora giovanissima, si sposa per amore con un uomo che sin da subito si mostra per quello che è: un marito-padrone, tiranno e violento, capace di farsi valere solo attraverso l’uso della forza e la vessazione. Il prodotto di una società globalmente patriarcale e maschilista ancora fortemente in debito con noi donne.

I tradimenti sono seriali, la violenza psicologica, le proibizioni, l’imposizione della propria volontà si accompagnano ad aggressioni fisiche e ad un atteggiamento noncurante (se non di vero disinteresse che rasenta la negligenza) verso i figli.

Maryam decide che è ora di spezzare il circolo. Va in ospedale, scatta il Codice Rosa e lei denuncia. È l’inizio di un secondo incubo comune a molte donne che decidono di salvarsi: da una parte quella che oggi si conosce come “violenza istituzionale”, dall’altra le modalità di attivazione ed intervento tanto dei procedimenti burocratici come degli enti predisposti alla tutela della vittima.

Perché se è vero che oggi possiamo contare con un’ampia rete di appoggio, protezione, rinserimento e seguimento di donne e minori provenienti da contesti violenti è altrettanto vero che spesso tutto l’iter sembra disegnato per scoraggiare o, per lo meno, questa è la sensazione soggettiva (e per questo fondamentale) delle vittime che riescono ad inserirsi nel sistema.

Gli assistenti sociali in primis vengono percepiti non come uno strumento di aiuto ma come una vaga minaccia, una nube nera che si cerne sulle madri e sui figli, che spesso vengono allontanati in base alla logica che una donna maltrattata non è atta ad esercitare come madre. Tanto Maryam come alcune sue conoscenti descrivono l’esperienza dei colloqui con gli assistenti sociali come negativa e per nulla rassicurante. L’impressione che spesso hanno è quella di essere sotto interrogatorio, messe a prova per cercare di farle cadere nel più piccolo errore che possa giustificare l’allontanamento dei figli.

Al primo tentativo di denuncia Maryam si sente rispondere di “pensarci bene, che è suo marito, che la cosa magari non è così grave”. Perché, si sa, siamo tutte isteriche.

Una volta fatta la denuncia, la vittima si ritrova in un nulla di fatto: nulla impedisce al denunciato di avvicinarsi a lei nei tempi e nelle modalità che preferisce (ed ecco come ci rendiamo conto della causa prima dei femminicidi: non solo la follia dell’assassino ma la reale mancanza di strumenti effettivi e coercitivi che gli impediscano fisicamente la possibilità di avvicinarsi alla vittima)

 Tanto Maryam come i suoi figli hanno dovuto assistere a scene di stalking (con il conseguente trauma) in cui lui si presentava sotto casa urlando minacce e insulti. È chiaro che la cosa non sia andata oltre per una questione di Fortuna, Karma o Divina Provvidenza. Ognuno gli dia il nome che meglio crede.

A tutto questo si aggiungono i tempi della legge e della burocrazia, ormai noti come materiale da sketch comico. Due anni e mezzo per ottenere la separazione (per il divorzio vero e proprio Maryam dovrà aspettare ancora circa un anno e mezzo).

In cosa si traduce tutto ciò? In un intricato caos burocratico in cui tutto resta intestato a lui (nonostante non viva nel nucleo familiare da tempo e nonostante un tribunale abbia assegnato il diritto a permanere nella casa a Maryam), soprattutto l’affitto che non viene pagato da mesi. E adesso una famiglia intera è minacciata di sfratto e con un debito di quasi 6000 euro che non può pagare (nota: Maryam vive nella stessa casa da quasi vent’anni pagando puntualmente l’affitto e le spese ma alla proprietaria sembra non interessare né questo né le circostanze attuali)

Anche se il giudice ha stabilito l’obbligo di passare gli alimenti questi soldi non sono mai arrivati. Ovviamente per volontà, non per una situazione economica carente.

Maryam continua a lottare con il suo avvocato per ricevere la giustizia che merita, per non perdere la casa e per essere finalmente libera di ricostruirsi la vita che si merita.

Parlando con Maryam e ascoltando la sua storia ho provato una fortissima rabbia e un senso di impotenza devastante. E ho iniziato a riflettere sul fatto che, oggi, ancora una buona fetta della società (uomini, certo, ma anche moltissime donne) neghi l’esistenza della violenza di genere. La parola “femminismo” è usata da molti come se fosse un insulto per descrivere donne isteriche, matte, invasate, odiatrici seriali del “sesso forte”. Eppure, quando tocchi con mano un caso come quello di Maryam ti rendi conto che quella pazza non sei tu, che la violenza contro le donne non è propaganda, non è una favola, non è una cosa del passato. La violenza sulle donne è un cancro, una malattia endemica e reale che, troppo spesso, uccide. E quando sopravviviamo siamo morte dentro e abbiamo il compito (spesso solitario) di ricostruirci da zero, superare il trauma senza magari averne gli strumenti né la possibilità di accedere ad un servizio psicologico.

La lotta iniziata due secoli fa non solo non è finita ma è ancora terribilmente necessaria e non ci sarà pace nei nostri cuori fino a che tutte le donne e le bambine siano a salvo e sicure, sempre.

IL FEMMINISMO E’ DI TUTTI

Avrei voluto parlare d’altro in questo spazio oggi ma una serie di avvenimenti recenti mi hanno fatto molto riflettere sul mio concetto di femminismo e su come spesso venga usata questa definizione con insofferenza soprattutto dagli uomini, ma anche dalle donne!

Non sono una sociologa e non citerò alcuna fonte perché questa riflessione è volutamente scritta di getto e, con ogni probabilità, molto male perché sull’onda dell’emozione di un insieme di fatti e circostanze che hanno incontrato la mia vita nell’ultimo periodo.

Da mamma sento sempre di più il dovere di educare i miei figli, maschio e femmina, ad essere liberi ed indipendenti da tutti i condizionamenti che io ed i miei genitori abbiamo avuto, scardinare le dinamiche tipiche del patriarcato a partire dall’interno della nostra famiglia. Sembra logico ma non lo è.

Personalmente ci ho messo molto tempo a raggiungere una certa consapevolezza e mi rendo conto che donne più mature di me hanno impiegato ancora più tempo… ecco, vorrei che a mia figlia non ne occorresse affatto.

Parimenti non voglio che mio figlio resti ingabbiato in stereotipi da “macho” che gli impediscano di esprimere i propri sentimenti, la propria personalità in maniera sincera, avere sempre rispetto delle persone soprattutto di quelle che vorrà amare con la responsabilità di chi sa sviluppare sentimenti adulti e non sentirsi sempre emotivamente dipendente.

Sempre più mi sembra di assistere alla presa di coscienza tardiva di donne che scoprono, finalmente, di bastare a se stesse e uomini che, rimasti soli, si rendono improvvisamente conto di essere stati investiti di potere per diritto di nascita e di non averlo “guadagnato sul campo” come molte delle loro consorti, facendo così crollare qualunque tipo di fiducia in se stessi. Di qui separazioni e sofferenze se non addirittura eventi tragici come i femminicidi ed infanticidi… nessun altro è responsabile della tua felicità e per nessuno vale la pena rinunciare alla propria.

Se davvero ci sentissimo pari, di conseguenza non esisterebbero disparità di genere, soprusi nei rapporti interpersonali, violenze in famiglia, pretese sul posto di lavoro, frustrazioni rispetto al proprio ruolo di genitore. Purtroppo siamo cresciuti (uomini e donne) completamente imbevuti ed educati ad una certa visione del mondo che ci condiziona anche inconsapevolmente.

Ora che la status quo sta scricchiolando e che, grazie alle battaglia di tante donne, abbiamo raggiunto, almeno sulla carta, una certa indipendenza, dobbiamo far capire agli uomini quanto è bello e profittevole vivere da pari, alle ragazze che non devono essere vittime o crocerossine e ai ragazzi che non devono cercare schiave o seconde mamme ma alleate, che i figli possono essere cresciuti insieme con amore, che si può essere entrambe genitori presenti perché è con l’esempio che possiamo migliorare il futuro dei nostri figli e dei figli dei nostri figli, quali che siano le loro scelte di vita.

…ora che ho dato sfogo alla mia pancia in stile Greta Thunberg del femminismo, vi auguro di vivere una vita felice… uno accanto all’altra

Carico mentale e donne

                                                               

Qualche giorno fa mi è tornata alla mente una puntata de “L’amica Geniale”, serie andata in onda su Rai uno e che nasce dai famosi romanzi di Elena Ferrante. Nell’ultima stagione, Lenù partorisce la sua prima figlia e, una volta tornata a casa, si sente molto sola. Il malessere si origina da un fattore ben preciso: il marito non vuole aiutarla, sostenendo – in modo velato e subdolo – che l’accudimento della bambina sia una questione tutta femminile; di cui lui, di certo, non può occuparsi. Anche quando la moglie gli chiede un ausilio esterno – cioè una persona che possa badare alla casa e alla piccola – il coniuge appare contrariato, incapace di comprendere il dolore della moglie, etichettando il suo malessere come superficiale capriccio. Lenù, però, saprà imporsi e, nel ricordare che non è una schiava, avrà ciò che giustamente pretende.

Mi sono chiesta, quindi, se noi tutte siamo come Lenù e, con mio sommo rammarico, mi sono resa conto che la risposta è affermativa. Possiamo identificarci in lei: la maternità in Italia sembra un peso solo delle donne che non solo a casa si sentono “perse” ma che, magari, perdono anche il lavoro per il desiderio di avere un figlio.

Ancora oggi, nonostante i grandi progressi fatti, il carico mentale è maggiore nelle donne che negli uomini. Si fa ancora molta fatica a riconoscere il peso che grava sulle femmine, si finge di non notare come queste siano sommerse dal lavoro domestico e si crede che solo loro debbano occuparsi dei pargoli. Sebbene oggi la situazione stia migliorando e le coppie riescono a dividersi il lavoro, ancora permane una mentalità piuttosto obsoleta e malsana.

Questo genera non soltanto grande frustrazione e stanchezza nelle donne, ma il ruolo del padre viene svilito, visto come un mero orpello aggiuntivo alla famiglia. E, in tutto questo, a risentirne è anche il bambino che non avrà una figura paterna presente e capace di aiutarlo nel quotidiano. E non solo: non avrà una madre serena, ma sfinita dal duro lavoro.

La nostra società ha – per tanto tempo – creato un modello patriarcale che vedeva al vertice l’uomo e la donna in basso, relegata in un angolo piccolo e stretto. Per secoli, le mansioni domestiche e la gestione dei figli erano prerogative materne. Il retaggio culturale è sicuramente forte e ben radicato ma dobbiamo distaccarcene una volta per tutte.

A proposito di carico mentale e di come le donne – oggi – siano in balia di pensieri tanto malsani, non posso non segnalare una bellissima graphic novel dal titolo Bastava chiedere, dieci storie di femminismo quotidiano dell’autrice francese Emma. La scrittrice, con fare ironico e leggero, riesce a raccontare le contraddizioni interne della nostra società e a mostrare il dolore alla quale sono sottoposte le donne. Crea una riflessione molto introspettiva e ampia: è un testo che spiega e non condanna, desidera solo mettere in luce le problematiche esistenti.

Sono certa che, tramite questa lettura, il discorso appena fatto sarà più comprensibile. Vi esorto a regalarlo a molte persone: più si legge e capisce, meno si soffrirà in futuro.