Maryam: storia di ordinaria violenza di genere

La storia di Maryam (nome di fantasia) è unica come lo è la vita di ognuno di noi ma, allo stesso tempo, è tragicamente comune.

È la storia di una donna che, ancora giovanissima, si sposa per amore con un uomo che sin da subito si mostra per quello che è: un marito-padrone, tiranno e violento, capace di farsi valere solo attraverso l’uso della forza e la vessazione. Il prodotto di una società globalmente patriarcale e maschilista ancora fortemente in debito con noi donne.

I tradimenti sono seriali, la violenza psicologica, le proibizioni, l’imposizione della propria volontà si accompagnano ad aggressioni fisiche e ad un atteggiamento noncurante (se non di vero disinteresse che rasenta la negligenza) verso i figli.

Maryam decide che è ora di spezzare il circolo. Va in ospedale, scatta il Codice Rosa e lei denuncia. È l’inizio di un secondo incubo comune a molte donne che decidono di salvarsi: da una parte quella che oggi si conosce come “violenza istituzionale”, dall’altra le modalità di attivazione ed intervento tanto dei procedimenti burocratici come degli enti predisposti alla tutela della vittima.

Perché se è vero che oggi possiamo contare con un’ampia rete di appoggio, protezione, rinserimento e seguimento di donne e minori provenienti da contesti violenti è altrettanto vero che spesso tutto l’iter sembra disegnato per scoraggiare o, per lo meno, questa è la sensazione soggettiva (e per questo fondamentale) delle vittime che riescono ad inserirsi nel sistema.

Gli assistenti sociali in primis vengono percepiti non come uno strumento di aiuto ma come una vaga minaccia, una nube nera che si cerne sulle madri e sui figli, che spesso vengono allontanati in base alla logica che una donna maltrattata non è atta ad esercitare come madre. Tanto Maryam come alcune sue conoscenti descrivono l’esperienza dei colloqui con gli assistenti sociali come negativa e per nulla rassicurante. L’impressione che spesso hanno è quella di essere sotto interrogatorio, messe a prova per cercare di farle cadere nel più piccolo errore che possa giustificare l’allontanamento dei figli.

Al primo tentativo di denuncia Maryam si sente rispondere di “pensarci bene, che è suo marito, che la cosa magari non è così grave”. Perché, si sa, siamo tutte isteriche.

Una volta fatta la denuncia, la vittima si ritrova in un nulla di fatto: nulla impedisce al denunciato di avvicinarsi a lei nei tempi e nelle modalità che preferisce (ed ecco come ci rendiamo conto della causa prima dei femminicidi: non solo la follia dell’assassino ma la reale mancanza di strumenti effettivi e coercitivi che gli impediscano fisicamente la possibilità di avvicinarsi alla vittima)

 Tanto Maryam come i suoi figli hanno dovuto assistere a scene di stalking (con il conseguente trauma) in cui lui si presentava sotto casa urlando minacce e insulti. È chiaro che la cosa non sia andata oltre per una questione di Fortuna, Karma o Divina Provvidenza. Ognuno gli dia il nome che meglio crede.

A tutto questo si aggiungono i tempi della legge e della burocrazia, ormai noti come materiale da sketch comico. Due anni e mezzo per ottenere la separazione (per il divorzio vero e proprio Maryam dovrà aspettare ancora circa un anno e mezzo).

In cosa si traduce tutto ciò? In un intricato caos burocratico in cui tutto resta intestato a lui (nonostante non viva nel nucleo familiare da tempo e nonostante un tribunale abbia assegnato il diritto a permanere nella casa a Maryam), soprattutto l’affitto che non viene pagato da mesi. E adesso una famiglia intera è minacciata di sfratto e con un debito di quasi 6000 euro che non può pagare (nota: Maryam vive nella stessa casa da quasi vent’anni pagando puntualmente l’affitto e le spese ma alla proprietaria sembra non interessare né questo né le circostanze attuali)

Anche se il giudice ha stabilito l’obbligo di passare gli alimenti questi soldi non sono mai arrivati. Ovviamente per volontà, non per una situazione economica carente.

Maryam continua a lottare con il suo avvocato per ricevere la giustizia che merita, per non perdere la casa e per essere finalmente libera di ricostruirsi la vita che si merita.

Parlando con Maryam e ascoltando la sua storia ho provato una fortissima rabbia e un senso di impotenza devastante. E ho iniziato a riflettere sul fatto che, oggi, ancora una buona fetta della società (uomini, certo, ma anche moltissime donne) neghi l’esistenza della violenza di genere. La parola “femminismo” è usata da molti come se fosse un insulto per descrivere donne isteriche, matte, invasate, odiatrici seriali del “sesso forte”. Eppure, quando tocchi con mano un caso come quello di Maryam ti rendi conto che quella pazza non sei tu, che la violenza contro le donne non è propaganda, non è una favola, non è una cosa del passato. La violenza sulle donne è un cancro, una malattia endemica e reale che, troppo spesso, uccide. E quando sopravviviamo siamo morte dentro e abbiamo il compito (spesso solitario) di ricostruirci da zero, superare il trauma senza magari averne gli strumenti né la possibilità di accedere ad un servizio psicologico.

La lotta iniziata due secoli fa non solo non è finita ma è ancora terribilmente necessaria e non ci sarà pace nei nostri cuori fino a che tutte le donne e le bambine siano a salvo e sicure, sempre.

L’emancipazione delle principesse Disney: dalla donna di casa all’eroina

Ospitiamo un pezzo di Katiuscia Zambrella

Ne sono passati di anni dalla prima rappresentazione della donna “per eccellenza”, la principessa, sognata nel secolo scorso con il rossetto rosso, le ciglia allungate, cipria bianca e gote con il blush rosa, come voleva la moda dell’epoca, a partire dagli anni ’30, dopo la caduta della Borsa di Wall Street, quando il tacco alto e il punto vita tornarono ad essere protagonisti. Biancaneve, incarnava oltre che, a conferma del nome, il modello estetico, anche e soprattutto l’ideale dell’uomo di quei tempi (ma si discosta davvero dall’attuale?) e cioè la perfetta padrona di casa: puliva, rassettava, accudente verso i nanetti, riservata, basti pensare alla prima reazione davanti al principe azzurro, quando fuggì via spaventata; ingenua e romantica, fa entrare una “vecchina” sconosciuta e mangia la mela offerta, viene salvata da un primo eroe, il cacciatore, che ha pietà di lei e, anziché il suo cuore, porta alla regina malvagia che voleva disfarsi della sua bellezza, il cuore di un cervo. Fino all’arrivo del principe che ancora una volta, da eroe, l’avrebbe difesa e portata via con sé, per amarla per sempre.

La situazione pare peggiorare quando fece il suo ingresso sullo schermo Cenerentola (o Cinderella), la vittima sacrificale di un’intera famiglia: la madre muore, il padre si risposa con un’arpìa che punta al suo patrimonio, le figlie – nonché sorellastre – sono viziate ed egocentriche oltre misura, poco dotate di acume e tantomeno di bellezza, naturalmente invidiose della sorellastra bella come il sole anche solo con uno straccio addosso e un filo di trucco. Si potrebbe dire che la poverina, arrivata in scena negli anni ’50, impersonificava un po’ tutte le figlie del sistema gerarchico del periodo, dove gli adulti imponevano un rigido modello educativo, poco incline al confronto, arbitri di ciò che era giusto e sbagliato, dove i figli dovevano solo obbedire, senza proferire parola. Ma…c’è un ma. Proprio come accade alle “mosche bianche”, qualcosa di stra-ordinario avviene. La schiava-principessa, si oppone al volere dell’adulto, la matrigna, andando di nascosto al ballo (sarà per questo che da piccola era la mia preferita?), disobbedendo di fatto ai suoi ordini. È vero, anche in questo caso, l’emblema della felicità è rappresentato dal Principe che la prende in sposa e lotta per trovarla ed esimerla da un esempio di vita poco dignitosa, ma attenzione, questa volta è lei che sceglie. Anche di sposarlo.

Con Aurora (o Rosaspina la sua seconda identità) ne “La bella addormentata nel bosco”, concluso da Disney pochi anni dopo, lo scenario è pressappoco simile. La principessa si ribella al volere delle zie-fate madrine che l’avevano tenuta nascosta fino ai suoi 18 anni (per via di un maleficio che le avrebbe procurato un sonno profondo e la caduta dell’impero, salvo il bacio d’amore di un Principe), maleficio del cui nemico però Aurora non sapeva nulla, in quanto super protetta dall’ambiente familiare. In un certo senso abbiamo un’involuzione, un’immagine femminile più sprovveduta e ingenua, che attende solo di essere amata. Così come il nostro Principe, che questa volta non si limiterà a “portarla via” dal pericolo, ma si batterà per lei contro un enorme drago, amplificando l’ideale dell’eroe maschile.

Ma la svolta arriva con Ariel, la Sirenetta. Per la prima volta è una donna a scegliere di lottare per la sua libertà, litigando col padre, abbandonando il suo mondo e – addirittura – salvare lei, il suo principe. Uscito alla fine degli anni ’80, possiamo considerarlo come riflesso della rivolta femminista degli anni ’70?

Passiamo a Belle, la bella intellettuale. Siamo negli anni ’90, in cui comincia a paventarsi l’idea di “moglie trofeo”, ovvero l’uomo potente doveva essere accompagnato da una donna dai canoni estetici molto alti, indipendentemente dal suo cervello. E, in questo caso Disney vuole lanciare un messaggio in contrapposizione alle aspettative sociali del momento che suggerisce: la donna è anche altro. È lei, Belle, la prima donna emancipata Disney. Ambiziosa, sogna una vita migliore, studia, ha una grande intelligenza emotiva, è sicura di sé e delle sue potenzialità. Non si accontenta. E la sua testardaggine verrà in qualche modo premiata, dietro alla Bestia, c’è, prima che un bel principe, un uomo rispettoso e attento ai suoi bisogni.

Jasmine, pochi anni dopo, nel 1992, incarnerà l’emblema della donna sensuale e carismatica, apparentemente sicura di sé, che, suo malgrado, cede alle avance di un (ladro travestito da) gentlemen (storia già sentita?). Il lieto fine però ci dice che sarà lei, a scegliere di far diventare Principe il ladruncolo, ribellandosi anch’essa a ciò che chiedeva la tradizione.

Pressappoco alla stessa stregua di Ariel e Belle sarà Pochaontas, a metà anni Novanta, che scapperà dalla sua tribù per fuggire in America alla ricerca del suo amato.

Mentre con Mulan, di origini cantonesi e di estrazione sociale bassissima, a fine anni Novanta, si invade e destabilizza un altro territorio stereotipato; la donna orientale con l’ideale della geisha, sceglie di diventare, a dispetto di quello che la sua cultura e la sua famiglia le impone, quello che vuol essere realmente: un soldato. Travestendosi (però) da uomo e affrontando tutti i dodici anni di guerra senza che nessuno mai se ne accorgesse. Ma il vero colpo di scena è un altro: questa volta non è la storia d’amore a lieto fine, ad occupare la scena, in quanto, come osservato dal critico cinematografico Andy Klein: “Mulan non sta aspettando che il suo principe un giorno venga; quando arriva, avendola conosciuta principalmente come un uomo, e avendo imparato ad ammirarla per le sue qualità più profonde, la storia d’amore è muta e sottile. Durante tutto il film lavorano costantemente per aiutarsi a vicenda a trasformarsi in versioni migliori e più vere di sé stessi al fine di raggiungere il loro vero potenziale”.

Sulle scie di Belle, Jasmine, Pochaontas e Mulan, in fatto di indipendenza, con maggiore incisività, arriverà Tiana, nel 2009, umile domestica di New Orleans al servizio del sindaco, la quale, contro ogni aspettativa, si rifiuterà di baciare il principe divenuto ranocchio per poter esaudire il suo sogno: aprire un grande ristorante, portando avanti, insieme al suo, anche il desiderio del padre defunto, a cui era affezionata e dal quale aveva ereditato creatività e ottimismo. The Oprah Magazine ha definito l’arrivo di una principessa Disney nera un “superamento della barriera, atteso da tempo”

Ed eccoci arrivate alla mia seconda principessa preferita (forse per narrazione pregna di molteplici significati): Rapunzel (o Raperonzolo). Uscita nel vicino 2010, la storia è quella di una principessa dotata dalla nascita di una chioma “magica” contenente il segreto della giovinezza, rapita da una strega malvagia e narcisista, che mal sopportava l’idea di invecchiare. La strega, spacciandosi per la madre della piccola, cresce la bella principessa in una torre senza porte e senza scale, nascosta in mezzo al bosco. I capelli di Rapunzel, mai tagliati, raggiungono lunghezze chilometriche che la presunta madre utilizza per entrare e uscire dalla torre. Compiuta la maggior età, la figlia devota, abituata a crearsi il suo mondo personale dentro ad un unico ambiente fatto di sogni e di illustrazioni colorate sui muri oltre che ad un unico amico (non a caso) rappresentato da un piccolo camaleonte, chiede di poter uscire per vedere le stelle. Qui si apre un altro interessante scenario: la “madre”, evidentemente manipolatrice, fa credere a Rapunzel che il mondo è pieno di mostri e gente cattiva, pronta ad ucciderla pur di rubarle il suo dono. Entra in scena il nostro nuovo modello maschile, un altro ladruncolo, Finn, stavolta, emblema del maschio Alpha, l’uomo che non deve chiedere mai, affascinante, vanitoso e pieno di sé, che, in fuga da altri furfanti speranzosi di condividere il bottino come concordato, scopre la torre e conosce la ragazza. Rapunzel riesce a difendersi e a mettere a terra l’uomo con una pentola e, al suo risveglio, lo obbligherà a portarla fuori dalla torre in cambio della refurtiva (senza essere al corrente che si trattasse proprio della sua corona, rubata a palazzo reale ai genitori addolorati, che non avevano mai smesso di sperare che fosse ancora viva). Il patto va a buon fine, i due passano una giornata fatta di nuove conoscenze ed esperienze mai fatte, per la principessa, fintanto che la strega non se ne accorge. A quel punto Rapunzel viene ulteriormente tradita da quella che pensava fosse sua madre, la quale, prima di trovarla, stringe un accordo con i due malavitosi, promettendogli la corona in cambio del rapimento del ragazzo. Quando la strega la troverà, le farà credere che lui sia stato consenziente, preferendo la corona a lei e riportandola a casa. Quindi? Il lieto fine? Il lieto fine c’è, ma non per mano di Finn, o meglio, Rapunzel si renderà conto da sola, di chi è (quella che pensa essere) sua madre, grazie al suo intuito e, soprattutto, grazie all’apertura al “mondo” esperita in quell’unico giorno di libertà. E, una volta tanto, l’uomo, dapprima materialista, per amore di quella donna coraggiosa, sceglie di salvare lei e non i suoi preziosi capelli, restituendo alla strega malvagia tutti gli anni rubati, riducendola in cenere e baciando la comune mortale che si rivelerà poi essere, quasi come “premio alle buone intenzioni”, la principessa cercata dal suo Regno.

Merida in “Ribelle” (2012), ribelle per definizione, adolescente “tipo” che non segue nulla delle regole impartite dalla regina madre, una principessa che non si sente tale, non ha un portamento delicato e neppure un carattere fragile, che ama cavalcare, scoccare frecce, combattere e non rinuncerebbe mai alle proprie giornate di svago prendendo marito, arriverà al punto di trasformare per sbaglio la madre in un orso. Tra mille imprevisti, poi, con l’aiuto dei fratellini pestiferi (che aveva fino a quel momento sottovalutato) e rendendosi conto dell’importanza che il ruolo della madre ricopriva per lei, iniziò con la stessa un rapporto fatto di fiducia e di comprensione, di protezione reciproca, arrivando finalmente a capirsi l’un l’altra e a liberandosi da un ruolo “forzato”, la madre tornerà ad essere più spensierata e la figlia più responsabile. Un racconto tutto al femminile, quindi, nessun principe azzurro.

E arriviamo alle due tanto amate principesse di Frozen (2013), Anna e Elsa. Adattata dalla fiaba di Hans Christian Andersen, “La regina delle nevi”, ci parla di due sorelle, quella dotata ma emarginata perché non in grado di controllare i suoi poteri e quella nella “norma”, che conduce una vita abitudinaria ma senza la compagnia dell’amata sorella. Anche qui in una storia tutta al femminile, di solidarietà (a differenza della fiaba originale che ci parlava di un rapporto più antagonista) dove vince l’intuito femminile e l’atto d’amore sopra ogni cosa, in quanto, Elsa rinuncerà ai suoi poteri pur di salvare la sorella dalla morte. A quest’ultima rimarrà l’uomo un po’ rude ma onesto conosciuto durante le ricerche della sorella fuggita e all’altra, la consapevolezza di quali sono i veri valori a cui non può rinunciare, l’amore fraterno e una vita vissuta appieno.

Ma il premio va a Vaiana, che in “Oceania”, nel 2016, acquisisce a pieno titolo i tratti dell’eroina. Vaiana è una giovane ragazza intraprendente e insieme saggia, destinata a diventare il capo villaggio dell’isola di Motunui. Da piccola viene scelta dall’Oceano per ritrovare il cuore dell’isola madre Te Fiti, rubato mille anni prima dal semidio Maui, perciò, dopo la morte dell’amata nonna, Vaiana intraprende un’audace missione per salvare il suo popolo. Sì, ma come ci riesce? Grazie al viaggio, metafora del percorso di vita. Perché solo quando, convinta del sapere tramandatole dalla sua famiglia, affronta il semidio Maui, scopre altre verità possibili, scopre che non tutto è come appare e capisce chi vuole essere realmente. Il suo scopo quindi, non sarà più solo salvare l’isola, ma, soprattutto, fare da mediatrice tra le credenze popolari radicate e le verità umane (o semiumane) soggettive, aiutando Maui e se stessa, portando alla riflessione e alla redenzione tutti coloro che hanno contribuito alla deprivazione dell’isola, insegnando l’arte del perdono, del rispetto, del non giudizio. Perché, come diceva Jorge Luis Borges, «Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza».

Un futuro tutto da scrivere

Ospitiamo un articolo di Valentina Carli

Essere giovani, oggi, è molto più difficile di un quarto di secolo fa.

Certo, ora ci sono internet e le infinite possibilità di una comunicazione rapidissima e senza confini. Ci si sposta di più, e con maggiore facilità – Covid permettendo – molto è stato fatto per raggiungere la parità di genere e si vedono tante più donne occupare posizioni di potere, rispetto al passato.

Tuttavia, molto rimane ancora da fare e, sotto certi profili, si assiste addirittura a un peggioramento della situazione della donna.

Un tempo, l’offerta formativa era varia, specifica e, soprattutto, chiara.

Per chi non era interessato a studiare, e decideva di iniziare a lavorare a quattordici anni, le opzioni erano concrete e accettabili. Le scuole elementari e le medie erano ottime, e quando ne uscivi eri alfabetizzato e attrezzato per affrontare la vita.

Oggi, si legge con sgomento di laureati incapaci di decrittare un testo scritto, o di produrre un elaborato privo di errori grammaticali. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in una scuola che deprime i docenti e non forma gli studenti.  

Tra istituti professionali, tecnici e licei, noi boomers potevamo decidere se e quanto restare sui libri, e chi tentava l’avventura universitaria forse non aveva millemila facoltà tra le quali spaziare con la fantasia, ma quando ne usciva, quel che stringeva nel pugno non era un inutile pezzo di carta, ma una laurea universalmente rispettata, grazie alla quale avevi accesso a una carriera dignitosa e garantita.

Oggi, all’enorme ventaglio di offerte proposte allo studente, corrisponde una deprimente pochezza, quando si tratta di usare il diploma ottenuto per trovare un impiego decente.

Anche il più prestigioso corso di laurea, infatti, non ti fornisce più alcuna garanzia in tal senso e se davvero ci tieni, molto spesso sei costretto a prendere la valigia e andare in capo al mondo, a caccia di un’occasione che, soprattutto in Italia, ai giovani viene negata.

I cervelli non in fuga si vedono costretti a subire uno sfruttamento ignobile, mascherato da contratto a progetto, o da contratto di apprendistato, che apprendistato non è. Ti assumono pagandoti una pipa di tabacco, ti tengono sulla corda per due anni, al terzo tiri il fiato, ma non del tutto, e nel frattempo lavori per tre, con un tutor tale solo sulla carta, nella realtà più evanescente di uno spettro, e gente molto concreta al tuo seguito, alla quale devi dare istruzioni. Gli apprendisti, nelle aziende italiane, non di rado sono capi fantasma, pagati come ragazzi di bottega. I quali, una volta assunti, partiranno dal più basso gradino retributivo, nonostante svolgano mansioni di responsabilità ormai da anni.

Ecco spiegato il perché le ragazze non facciano figli prima di non essere più tali, i giovani fatichino a metter su famiglia, e la next generation EU minacci di diventare la last generation EU. Perché se anche per fare la maestra elementare o l’infermiera devi prenderti un paio di lauree – la famigerata 3 + 2, che in barba alla matematica fa quasi sempre 6, quand’anche non 7 – prima dei 26 anni, tra una cosa e l’altra, non ne sei fuori.

La cosa non sorprende, del resto, dato che i professori, all’università, fanno quello che gli pare, decidendo di testa loro programmi, esami, appelli e criteri di valutazione. Alcuni di loro sfogano le proprie frustrazioni bocciando la maggioranza dei candidati in cinque minuti ciascuno, più e più volte di seguito, facendo di qualche esame una roulette russa tanto folle, da far sì che gli Italiani siano i laureati più anziani del globo terracqueo.

O i nostri figli si sono tutti rincretiniti, o nel sistema c’è qualcosa che non quadra. Se, a dispetto di tutte le difficoltà, arrivi ad agguantare l’ambito diploma, prima di avere un lavoro sicuro e pagato il giusto, quindi, devi calcolare un altro quinquennio.

Ed eccoti qui, a trent’anni e rotti, con l’orologio biologico che ticchetta e la nonna che ti fissa perplessa, scuotendo la testa, disperando di vederti finalmente sistemata. Già, sistemata. È proprio la parola giusta.

Ammesso e non concesso che trovi la combine adatta, e che questa persona sia disposta a condividere con te anche gli oneri, oltre agli onori della vita di coppia e della genitorialità, prima di lanciarti nella mischia dovrai passare svariati altri esami.

Dal direttore di banca che prima di darvi il mutuo per la casa vuole anche la tua colposcopia, al direttore del nido che accetta solo solventi, perché quello comunale non c’è, e quando c’è dista quattro parsec dall’unico quartiere che ti puoi permettere, per finire con la reazione del tuo capo, il quale, all’atto dell’assunzione, ha fissato con nauseata intenzione la fede al tuo anulare, ci vuole del coraggio, per lanciarsi nell’impresa della riproduzione.

Ma tu sei una donna indomita, e non ti arrendi. Sperando che la natura, irritata dalla lunga attesa, non ti punisca facendoti penare per concepire un figlio, diciamo che ce la fai. La doppia riga sul test ti rivela la futura maternità.

E qui iniziano i guai.  

Una donna incinta ha la sgradevole sensazione, se dipendente, di creare un problema alla struttura presso la quale lavora, mentre se è una lavoratrice autonoma, sarà costretta a lavorare fino alla prima mezz’ora di doglie, per ritornare sul pezzo non appena il pupo avrà emesso il suo primo vagito. Quanto alle collaboratrici a progetto, il progetto di un figlio non è contemplato: alla notizia “sono in attesa”, segue un definitivo “a mai più rivederci. Grazie, è stato bello finché è durato”.

In un modo o nell’altro, questa società te lo farà scontare, l’azzardo di esserti voluta riprodurre.

Quando sei mamma, hai diritto a prenderti del tempo per te e per il tuo bambino, ma di certo questo si ripercuoterà sulla tua carriera, a meno che tu non abbia l’enorme fortuna di essere capitata in una struttura enorme, in grado di sostenere e persino supportare la maternità delle sue giovani collaboratrici. Ma una fortuna così capita a troppo poche tra noi.

La maggior parte sentirà il peso del giudizio sul lavoro – è sempre a casa con la bertuccia! – e a casa – non lo calcoli proprio tuo figlio, eh? – rischiando di perdere la serenità in quella che sembra un’impossibile quadratura del cerchio: conciliare il lavoro con la maternità.  

In tutto questo, gli uomini sono indecisi a tutto, quando si tratta di pupi. Noi soffriamo per i sensi di colpa, loro per il mobbing, a causa del quale gli sembra di sbagliare qualsiasi cosa facciano. Se prendono l’allattamento in ufficio se li mangiano, se collaborano con la compagna i loro padri li guardano come alieni, le madri come vittime, mentre le mogli li guardano male, perché come fai a non capire da che parte si mette il Pampers?!

Nessuno si sente a proprio agio, schiacciato da un eccesso di aspettative e abbandonato a sé stesso da un sistema creato per produrre a discapito del singolo, invece di investire sul supporto del singolo, nell’interesse dell’intera società. Una società di nonni non ha futuro. Sarebbe il caso di non dimenticarlo.

A tal proposito, i genitori/nonni, schiacciati tra un lavoro che non potranno lasciare fino a quasi settant’anni e genitori anzianissimi ai quali badare, anche qui per la scarsità di strutture adeguate, non si potranno offrire per più di un baby-sitting sporadico, poco incisivo e per nulla determinante.   

Tutto ciò detto, c’è poco da sorprendersi se, al posto di un bipede glabro impossibile da delegare, molte donne selezioneranno un quadrupede peloso da amare. Non di rado preferendolo anche a un compagno, ancora troppo poco evoluto per supportare la versione 2.0 delle giovani donne di oggi.

Intelligenti, determinate e pienamente coscienti dei propri diritti. Di qualsiasi contesto si parli.