Adolf Hitler: un desolante caso umano

È la prima volta che non accompagno al nome di Adolf Hitler una qualifica che lo identifichi per quello che di fatto è stato: un mostro.

È superfluo sottolineare quanto l’animo spietato di questo uomo abbia sollevato lo sdegno di intere generazioni, dopo la tragedia dell’Olocausto durante la seconda guerra mondiale e parlarne non significa, per me, trovare scusanti o giustificare la condotta criminale di un invasato. Se oggi faccio quel nome è perché ho letto un libro che parla di lui tentando un approccio nuovo, che mi ha incuriosita. Si tratta di un romanzo che mira a infrangere un tabù, senza pretendere di “assolvere” chi è già stato condannato dalla storia.

Sto parlando di “H – Come Hitler vedeva i suoi tedeschi” di Johann Lerchenwald, pubblicato dalla casa editrice Jouvence, che racconta in modo accurato l’iter biografico del Führer, dall’infanzia fino all’ascesa al potere, senza dare dei giudizi di tipo morale, ma mostrando un percorso di scelte, scivolate lentamente, negli anni, verso il baratro dell’odio e della violenza.

 Il tentativo dell’autore di smontare l’impenetrabile aura demoniaca di Hitler passa attraverso un punto di vista inedito, quello del protagonista stesso, che, tuttavia, parla in terza persona, per creare un certo distacco dal potenziale “interlocutore”, che legge. Così siamo in presenza di un’indagine psicologica a carattere autobiografico, che scava nei pensieri e nelle intenzioni di un uomo addirittura fragile, con dei traumi infantili mai risolti, pieno di paure e di complessi, senza l’obiettività che troveremmo in una sistematica biografia. Per questo il libro non ha le caratteristiche della narrazione saggistica, ma rientra nel genere del romanzo storico.

La delicata operazione condotta da Lerchenwald mira a restituire Hitler alla sua storia reale, non mitizzata, riducendolo a una dimensione che lo avvicina, piuttosto, all’umana miseria. 

Perché non credere che il piccolo Adolf avesse subito il trauma di un padre violento, che lo pestava di botte (una volta fino quasi a fagli sfiorare la morte)? o che amasse la madre al punto da tenere sempre con sé, in tasca, anche da adulto, una sua fotografia? Perché non credere al suo amore per i libri e per alcuni “eroi” della storia: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone? Che volesse fare il pittore o studiare architettura non ha nulla di strano, ma sono certa di suscitare una risata se dico che voleva diventare abate o che sognava di fare il tribuno del popolo: un germe buono, avvelenato dall’ambizione e dal risentimento. 

La sua rabbia cominciò a manifestarsi quando conobbe i membri del Partito Tedesco dei Lavoratori, di cui farà parte, e trovò il suo principale fondamento nella cocente sconfitta subita dopo la Grande Guerra, quando le condizioni imposte dal “Trattato di Versailles”, il cosiddetto “Patto della vergogna”, umiliarono la Germania con sanzioni che piegarono l’orgoglio della Nazione. E lui, venuto dal nulla, senza una posizione sociale di rilievo, senza un titolo di studio, solo perché aveva le idee chiare e un’ottima capacità oratoria, era riuscito a imporsi prima sui compagni di partito, poi sulla popolazione e a diventare la guida materiale e spirituale di uno Stato alla deriva, unico artefice della rinascita della Germania. Per arrivare a questo dovette quasi “imporsi” una condotta; la regola era non lasciarsi fuorviare dal sentimento. Da qui la sua inflessibile durezza, la spudoratezza degli ordini, il tono militaresco “recitato”, l’esagerata aggressività, che riteneva indispensabili e utili perché gli risparmiavano la fatica di un’opera di persuasione e semplificava le situazioni.

Come credere, invece, al fatto che Hitler non fosse senza cuore!

Eppure non mise mai piede in un lager né volle mai assistere a un’esecuzione, perché lo spettacolo della sofferenza gli rammentava quella vissuta in trincea durante gli anni della prima guerra mondiale, quando la vista della gioventù mutilata lo nauseava e gli faceva venire le lacrime agli occhi. 

È incredibile come un uomo che, nonostante tutto, non si riteneva antisemita e che aveva trovato negli ebrei solo la soluzione più semplice per offrire ai tedeschi un capro espiatorio, avesse impiantato una campagna di odio tanto efferata da cancellare pure il senso di umanità in seno alla sua stessa popolazione. 

Ed è questa la reale risposta mancante ai fatti tragici della storia: avrebbe potuto un solo uomo, senza l’appoggio quiescente di una popolazione stregata, manipolata, testimone e complice di una politica criminosa e senza l’apporto di uno staff di gerarchi obbedienti e incondizionatamente asserviti al suo volere, diffondere tanto odio e arrivare a concepire, dopo una ferrea politica antisemita, la “soluzione finale del problema ebraico”?

Capire lo spirito tedesco potrebbe aiutare a capire (senza che ciò comporti una giustificazione) anche la figura di Hitler, definito a torto o a ragione un “desolante caso umano”? Perché è come se le due cose fossero inscindibili: se Hitler non avesse trovato terreno fertile in una popolazione piegata dalla crisi economica e stanca di subire le decisioni di un Governo debole, cosa ne sarebbe stato del suo desiderio di megalomania? quale ruolo avrebbero avuto gli ebrei perfettamente integrati nella società tedesca al punto da vantare posizioni di prestigio ed essere tenuti in grande considerazione?

La lettura del romanzo potrebbe prestarsi a interpretazioni equivoche; io ho provato ad andare al di là delle facili deduzioni, a non essere prevenuta, a non agire spinta dal pregiudizio liquidatorio: non ho scoperto un Hitler che meritasse il perdono, né mai cambierò opinione su ciò che è accaduto sotto la sua dittatura, ho, tuttavia, capito che le responsabilità sono tante e che a fronte della teatralità di un dittatore senza scrupoli c’è un intera popolazione che avrebbe potuto fare molto per evitare un dramma senza precedenti e invece ha taciuto.

Ricordare la Shoah è un atto di grande rispetto verso la memoria di eventi tragici, ma c’è ancora ampio margine per un dibattito costruttivo che, senza rispondere a interrogativi che non avranno mai risposte, può rendere una consapevolezza in più e favorire un maggiore atteggiamento critico, di cui ritengo ci sia sempre bisogno.

Ikigai e senso della vita

Tutti noi ci poniamo interrogativi sul nostro scopo esistenziale, sul senso delle attività – professionali e non – che svolgiamo e sulle nostre routine quotidiane, sforzandoci ogni giorno di renderle conformi a uno stile di vita ideale, cucito su misura per la nostra personalità. Uno stile di vita, in poche parole, che ci faccia svegliare la mattina non dico felici e canticchianti, ma almeno sereni, in pace con noi stessi. Cosa che, a ben vedere, dovrebbe essere la norma. Ma quanti di noi scendono dal letto cristonando, già scazzati in vista della giornata che li aspetta? Bene: a tutto questo si può porre rimedio, andando alla ricerca di un significato più profondo. Un significato, al quale i giapponesi hanno dato un nome: ikigai. Un significato che, in un’epoca di rivoluzione spirituale, viene cercato da un numero sempre maggiore di persone. Non ci si accontenta più, infatti, di produrre, lavorare e farsi una famiglia, se tutto questo non ci fa star bene. Si vuole andare oltre. Ed è giusto così.

Cos’è l’Ikigai?

 Stiamo parlando di una parola sostanzialmente intraducibile. Semplificando, IKI si potrebbe tradurre con “vivere” e gai come “senso”, “scopo”, “valere la pena”. In sintesi, potremmo dire che l’ikigai è:

  • Il senso della vita;
  • le ragioni per cui vale la pena esistere;
  • il pensiero che ci spinge ad alzarci dal letto la mattina;
  • la gioia di fare le cose che rendono la vita degna di essere vissuta;
  • la realizzazione di sé e l’auto-motivazione;
  • il fatto di sentirsi vivi;
  • la felicità e i traguardi individuali.

In poche parole, il termine Ikigai rimanda a una persona che conosce il significato della propria esistenza e quindi sperimenta un appagamento generale non riscontrabile in chi invece si lascia semplicemente esistere, schiacciato da convinzioni limitanti e aspettative sociali.

Certo, trovare l’ikigai non significa evitare per sempre rogne, lavori mediocri, discussioni e situazioni spiacevoli. Ma, se riuscirà a tenere a mente il nostro obiettivo principale (che potrebbe anche cambiare, nel corso del tempo) ogni tempesta sarà passeggera. Magari barcolleremo per un istante, ci perderemo in inevitabili deviazioni ma poi torneremo sulla retta via. Mai più di capiterà di perderci nel buio o di finire in depressione, perché avremo comunque una meta.

Come si esprime l’Ikigai nella nostra vita quotidiana?

Secondo Bettina Leike, autrice del libro Ikigai, nella vita possiamo distinguere quattro grandi aree tematiche:

  • Ciò che amiamo fare;
  • Ciò che sappiamo fare;
  • Ciò di cui il mondo ha bisogno;
  • Ciò per cui siamo pagati o potremmo esserlo.

Alcuni aspetti del nostro Ikigai, possono rientrare in una di queste aree e creare delle intersezioni, che potremmo considerare delle tappe intermedie. Non vi descrivo nel dettaglio queste aree vitali, perché sono chiaramente rappresentate dall’immagine: passione, professione, missione e vocazione. Potersi collocare anche in una sola di queste, è già per molti un ottimo traguardo. Ma la natura umana ci consente di andare oltre, e di trovare il punto in cui queste quattro parole si incontrano. L’Ikigai, appunto: la ragione profonda per cui siamo al mondo.

Come trovare il proprio Ikigai? 

Il libro di Bettina Leike propone diversi esercizi per trovare il proprio Ikigai. In particolare, ci viene chiesto di rispondere intuitivamente ad alcuni quesiti, senza cadere nel mentale.  Sebbene non abbia ancora completato la mia opera, e la mancanza di tempo non mi agevoli, è una ricerca che sto portando avanti volentieri, perché aiuta a intraprendere un interessante viaggio di me, a scoprire lati del mio carattere che ignoravo, migliorando, di conseguenza, anche la mia autostima. Crediamo, infatti, di conoscerci bene. In realtà il nostro carattere contiene tante sfumature, spesso relegate nell’inconscio, che affrontando esercizi di questo tipo con la mente vuota, in una totale assenza di preconcetti, possiamo far emergere con facilità, e anche con un pizzico di divertimento.

Tuttavia, mi rendo conto che non tutti hanno il tempo e la voglia per sedersi a tavolino, con un libro davanti. A queste persone, suggerisco di giocare, di trovare l’Ikigai in un altro modo.

Il mio suggerimento, è molto semplice:

  • prendete un foglio A4 e una penna;
  • riproducete lo schema che vedete nell’immagine;
  • riempite i vari cerchi, spaziando tra ambiti diversi, e osservate ciò che viene fuori.

Se quanto emerso non vi convince, provate e riprovate, finché non vi imbattete in risposte che vi fanno sentire a proprio agio, appagati e consapevoli di esservi messe sulla strada giusta.

Tenete conto di un fatto: l’Ikigai potrebbe anche evolvere e mutare nel corso del tempo, anche se succede raramente. Questo, però, non è un buon motivo per rinunciare a cercarlo!

Il cavaliere Don Chisciotte della Mancha

El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, altrimenti conosciuto come El Quijote o, in lingua italiana Il Don Chisciotte, è l’opera più conosciuta di tutta la letteratura spagnola, nonché un romanzo significativo per il mondo intero. Per comprendere meglio quest’opera, dobbiamo sapere che l’intento iniziale dell’autore, Miguel de Cervantes, era quello di ridicolizzare i libri di cavalleria che non riusciva ad apprezzare. In accordo con molti umanisti e moralisti del tempo, credeva fossero oltremodo fittizi e stravaganti.

Durante la scrittura dell’opera, Cervantes si accorse però che il tema cavalleresco, oltre all’esagerazione mostrata nei libri, si fondava in un sistema di ideali nobili ed elevati come per esempio il coraggio, la generosità, la difesa dei più deboli ed emarginati. Per questo motivo la parodia finì per mescolarsi ad un sentimento di nostalgia nei confronti di quei valori e sentimenti che l’autore non riusciva ad incontrare nella sua epoca.

Oltre a questo importante connubio di parodia e melancolia, l’opera una fotografia lucida e dettagliata del panorama sociale contemporaneo allo scrittore.

Il Don Chisciotte è diviso in due volumi, rispettivamente di 52 e 74 capitoli. La prima parte sarà pubblicata nel gennaio 1605 e la seconda nel 1616, a seguito dell’enorme successo riscontrato dal primo libro.

L’opera narra la storia di Don Alonso Quijano, un signore di cinquanta anni proveniente dalla Mancha diventato pazzo per aver letto un numero elevato di libri sulla cavalleria. Guidato da nobili ideali, sotto il nome di Don Quijote de la Mancha, si tuffa in una serie di avventure assieme al suo vecchio cavallo Ronzinante e il suo scudiero Sancho Panza per conquistare la dama Dulcinea del Toboso, in realtà una contadina di nome Aldonza, idealizzata dal protagonista.

Durante il loro cammino, Don Quijote e Sancho Panza incontrano vari personaggi che racconteranno le loro storie. Fra le loro avventure si ricorda in particolar modo la lotta contro i mulini a vento scambiati per dei giganti e il rientro di Don Quijote nel suo paese d’origine, luogo in cui ritroverà la ragione ma perderà la vita proprio a causa della sua lucidità.

Attraverso il Don Quijote, Miguel de Cervantes riesce a creare una sintesi perfetta fra tutti gli stili della letteratura rinascimentale. Per questo motivo si parla di stile polifonico: ogni personaggio, attraverso il proprio linguaggio, rappresenta una condizione sociale ben definita, uno stato d’animo, o la situazione dentro la quale agisce e si muove. Lo stesso protagonista è caratterizzato da tantissimi toni differenti a seconda di ciò che accade e di ciò che egli percepisce.

È proprio la polifonia uno dei tratti più innovatori apportati da Miguel de Cervantes e, assieme ad esso, il fatto che ogni personaggio debba fare i conti con una propria evoluzione personale. Secondo José Manuel Lucia Megias, professore di filologia romanza presso l’Università Complutense di Madrid e coordinatore accademico del Centro de Estudios Cervantinos, i personaggi di quest’opera non sono stereotipi identici dalla prima all’ultima pagina, ma dopo aver affrontato determinati avvenimenti, cominciano ad agire e a pensare in modo differente, fino a diventare diversi loro stessi.

Fonte immagine: wikipedia.org