Nell’anniversario della canzone “We are the world”,ospitiamo un articolo di Pina Dota.
Scorrere il video di “We are the world” vuol dire tuffarsi di testa negli anni ’80, così come ce li ha consegnati la mitologia, sia che li abbiamo percorsi, sia che li abbiamo sentiti celebrare da amici/fratelli/familiari più grandi di noi.
L’epoca delle possibilità tutte aperte, di sogni che parevano andare più lenti della tecnologia che prometteva di proiettarli nel futuro, di desideri saturi di colori… In quello che si può raccontare, a posteriori, come un momento di grandi attese, di cambiamenti, e di comunicazioni che vanno veloci, irrompe la notizia che la fame miete milioni di vittime in Africa, a seguito di una carestia.
Bob Geldof, nell’intento di offrire un sollievo immediato sia pure parziale a questa emergenza, riunisce in Inghilterra un gruppo di artisti nel progetto Band Aid che parte con l’incisione di un brano, Do they know it’s Christmas? e in poche settimane ottiene un grandissimo successo internazionale raccogliendo diversi milioni di sterline interamente devoluti in beneficenza alle popolazioni così duramente colpite.
Questa canzone è il seme. Gli artisti statunitensi raccolgono l’idea, partendo dalla indignata e commossa partecipazione di Harry Belafonte, musicista nero furioso e impotente davanti alle sofferenze del suo popolo, il quale suggerisce al suo manager che potrebbe anch’egli incidere un brano per sostenere in particolar modo l’Etiopia. La macchina si mette in moto, dall’idea di uno si concretizza un brano scritto a sei mani da Lionel Richie, Michael Jackson, Quincy Jones. Il brano è We are the world, all’appello umanitario rispondono 45 tra i più grandi artisti statunitensi che si chiameranno U.S.A. – United Support Artists –solo qualche nome: Bob Dylan, Bruce Springsteen, Joe Cocker, Cindy Lauper, Dionne Warwick, Tina Turner, Diana Ross, Stevie Wonder…- e il video dell’incisione rappresenta il momento in cui cambia per sempre il modo di fare solidarietà.
Ciascuno può essere protagonista di un gesto altruista, anche nel concedersi un piccolo piacere quale l’ascolto di un brano, inserendo la pratica della solidarietà nel suo quotidiano senza ricorrere a gesti eclatanti. Questa modalità di intervento si affina via via che la tecnologia progredisce e con l’avvento dei telefoni cellulari la solidarietà si esprime tramite SMS che raccolgono fondi per ogni tipo di situazione, dall’emergenza tsunami o terremoti alle piaghe mai debellate della fame e delle epidemie nei paesi più poveri, che preferiamo chiamare “in via di sviluppo”. We are the world è divenuto un progetto permanente che tutt’oggi porta sollievo e aiuti umanitari nelle lande più povere del pianeta.
Il modello della musica che si propone quale strumento di sollievo e ricostruzione passa negli anni per altri momenti importanti, specie in Italia, Paese da sempre in prima linea quando si tratta di portare soccorsi.
A titolo di esempio, possiamo citare il brano “Domani domani” registrato da un larghissimo numero di cantanti e cantautori italiani per aiutare la ricostruzione in Abruzzo a seguito del terremoto che distrusse L’Aquila nel 2009, o il concerto e poi il dvd “Amiche per l’Emilia” tramite il quale le musiciste e cantanti italiane , capitanate da Laura Pausini e Fiorella Mannoia, raccolgono fondi a seguito dello sciame sismico che ha devastato l’Emilia Romagna, o i gala Pavarotti & Friends, ultime monumentali apparizioni del tenore che coinvolge colleghi in iniziative benefiche, sono eventi mediatici con una vasta eco. Lavora per così dire invece in pianta stabile la Nazionale Cantanti che non manca mai di prestarsi per partite i cui proventi vadano a favore di ospedali o iniziative per l’infanzia.
Eppure, proprio la proliferazione delle attività di solidarietà indica che, in una società che definiamo postmoderna, in realtà non siamo riusciti ad assicurare neppure il soddisfacimento dei bisogni elementari della maggioranza della popolazione mondiale. Tentiamo affannosamente di riparare i danni irreparabili di una ingiusta distribuzione delle risorse e in qualche modo di sanare i feroci sensi di colpa – per coloro che li vivono – per essere nati nella parte fortunata dell’emisfero.
Io ero bambina nel 1985, quando We are the world è uscita, e su di essa ho masticato le prime parole di inglese e vagheggiato sogni di ricchezza e prosperità che avrebbero illuminato, nella mia ingenua e infantile percezione, la mia vita di adulta. Ieri ho fatto un esperimento, ho proposto l’ascolto ad una amica trentenne, grande consumatrice di musica anglofona.
Mi ha detto che il brano lo conosce appena, riconosce di averlo ascoltato forse quattro o cinque volte. Ok, le ho detto, ma il messaggio non ti colpisce? No, mi ha detto, mi pare che non sia cambiato nulla in 36 anni, quel We non è riuscito a diventare world.