PELLE DI FOCA – Intervista a Melania D’Alessandro

Marzo è per me sempre un mese di raccoglimento e di riflessione.

Tendenzialmente non mi esprimo molto sulla “giornata internazionale della donna” perché ho sempre la sensazione che si buttino molte parole al vento mentre gli ostacoli quotidiani restano per lo più gli stessi e, nella maggior parte dei casi, ancora molto lontani dall’essere superati.

Detto ciò, l’8 MARZO mi da’ sempre molto su cui riflettere rispetto alla mia vita di donna e rispetto alla vita di tutte le donne. Quest’anno più di altri, mi è tornato alla mente un libro letto qualche tempo fa che per me è stato fonte di molti spunti di riflessione, per questo motivo voglio cogliere l’occasione per fare due chiacchere insieme a Melania D’Alessandro, autrice di “Pelle di Foca”

Puoi spigare in breve il significato di questo titolo?

Ho intitolato il romanzo “Pelle di Foca” per due motivi. Prima di tutto, perché la leggenda alla quale s’ispira porta lo stesso titolo. In secondo luogo, è anche il soprannome con cui viene chiamata Brennalyn, la protagonista della storia.

Lei, che viene trovata ancora in fasce sulla spiaggia in una fredda notte di fine ottobre, ha infatti un legame profondo con le selkie degli antichi racconti di mare appartenenti a tutto il nord Europa. Si tratta di donne-foca capaci di abitare per breve tempo il mondo degli uomini, prima di tornare alla loro vera e nutriente casa: il mare. La stessa Brennalyn sarà divisa per tutto il romanzo tra terra e acqua, tra una vita che non le appartiene e una che invece rispecchia la sua più autentica e selvatica natura.

La pelle di foca quindi rappresenta la nostra vera natura selvatica, bisogna imparare a essere egoiste per riappropriarci della nostra vera natura?

Credo molto nel potere della parola in quanto vibrazione. Le parole hanno un loro peso energetico, per questo motivo non parlerei di egoismo, quanto piuttosto di amor proprio. Prendersi cura di sé è imprescindibile ed è un atto d’amore che facciamo nei nostri confronti; è un dovere che avremmo per vivere in modo più sano con noi e con chi ci circonda. È ancora molto forte, nella nostra società, la convinzione che perdersi nel mondo, accudire sempre il prossimo, dare continue attenzioni a familiari, cause, ideali, ecc. equivalga a fare del bene, a essere persone altruiste, rette. Purtroppo, questo si rivela spesso deleterio, soprattutto perché non sappiamo porre dei sani confini tra noi e tutto ciò che è “altro”. Se, al contrario, imparassimo a prenderci cura in primis di noi, a risolvere le nostre ferite interiori (e questo richiede tempo e un grande coraggio), allora di conseguenza migliorerebbe il nostro rapporto con noi stesse e con tutti coloro con cui veniamo a contatto. Lo cantava anche Michael Jackson: I started with the man in the mirror, si inizia dalla persona che si vede tutti i giorni riflessa nello specchio. Quel sano egoismo, sì, aiuta a ritrovare davvero la libertà, l’espressione autentica di sé.

Gli uomini tengono in ostaggio la nostra vera pelle?

Sarò in controtendenza, probabilmente, ma non credo sia utile dare responsabilità al genere maschile di questo. Ciò di cui parlo, sia nel romanzo che in altri progetti in corso, vale per entrambi i sessi, poiché ogni essere umano è stato in qualche misura influenzato da regole sociali, condizionamenti, traumi familiari… Abbiamo dimenticato il divino che abita in noi, così come la nostra autenticità, e questo oblio è la causa primaria di tutti i conflitti. La nostra specie è complessa e, nella sua complessità, esercita un grande fascino per chi impara a comprenderne i meccanismi e le energie, che mutano di era in era in modo ciclico. Anche se per molti è difficile crederlo, persino il sesso maschile ha subito l’influenza di determinati cliché e stereotipi, che oggi si ripercuotono tanto sull’uomo quanto sulla donna, e ciò avviene in egual misura e in modi differenti per ambo i generi. Ci sono studi approfonditi e molto affascinanti al riguardo che riescono a risalire addirittura alle società arcaiche della preistoria; tali ricerche mostrano come l’espressione dei sentimenti sia cambiata nel corso della nostra evoluzione in base al clima, alle migrazioni degli animali, al nomadismo o alla stanzialità delle tribù, al cambiamento delle abitudini alimentari e di vita dei nostri lontani antenati… mutamenti che hanno portato l’essere umano a sviluppare difese emotive specifiche ai problemi che si trovava obbligato ad affrontare. Quelle difese sono attive ancora oggi, anche se non ne siamo consapevoli. Per concludere, dunque, per ritrovare la propria vera natura, è necessario porre fine alla deresponsabilizzazione: ogni giorno, poco alla volta, possiamo lavorare interiormente per far sì di guarire dalle nostre ferite e manifestarci sempre un po’ di più in qualità di Anime, rispettando noi stessi/e e imparando a ricordare (= riportare nel cuore) perché siamo qui, perché esistiamo su questo pianeta.

Tu ti occupi di per-corsi che trattano anche di questo riappropriarsi della propria “energie spirituale”?

Sì. C’è bisogno di considerare la nostra parte spirituale tanto quanto abbiamo imparato a vivere quella materiale. Non siamo solo corpo, allo stesso modo in cui non siamo solo Spirito. Per questo conduco corsi rivolti a tutti che, tramite il lavoro su di sé e con specifici esercizi, portano a spogliarsi da condizionamenti e convinzioni auto-limitanti, aiutando a percepire le proprie emozioni con consapevolezza e a trasmutare se stessi e la propria vita da piombo a oro, vivendo con maggiore centratura e Presenza. Questo è esattamente il compito dell’Alchimia Trasmutativa, della quale mi occupo. È bello notare come, davanti allo Spirito, donne e uomini siano chiamati a compiere lo stesso lavoro interiore, il medesimo percorso. Ed è altrettanto bello assistere alla loro trasformazione, che porta veri e propri miracoli nelle vite di ognuno.

In parallelo a questo, porto le mie conoscenze anche all’interno di percorsi dedicati alle donne, nei quali si lavora per conoscere dal punto di vista esoterico le energie che ci abitano, per poi portare nel mondo un femminile più consapevole e sano. Si parte spesso da miti, leggende, archetipi, per poi integrare quella conoscenza anche nei propri rapporti con i figli, con gli uomini, con i familiari, con i colleghi… E, anche in questo caso, apre il cuore essere testimoni della bellezza che la donna riesce poi a portare nella sua vita.

Purtroppo gli argomenti sono tanti, interessanti e vasti perciò vi consiglio innanzitutto di leggere il libro (lo trovate on line) e se volete approfondire il tema alchemico e il lavoro di Mel e cominciare questa Primavera col piede giusto, vi segnalo i seguenti link e tutti i relativi profili social:

https://spondediboscomadre.com/

https://www.magmel-alchimia.com

https://www.youtube.com/channel/UC3o_Th6lsqdI79-E-KDNDxQ

IL FEMMINISMO E’ DI TUTTI

Avrei voluto parlare d’altro in questo spazio oggi ma una serie di avvenimenti recenti mi hanno fatto molto riflettere sul mio concetto di femminismo e su come spesso venga usata questa definizione con insofferenza soprattutto dagli uomini, ma anche dalle donne!

Non sono una sociologa e non citerò alcuna fonte perché questa riflessione è volutamente scritta di getto e, con ogni probabilità, molto male perché sull’onda dell’emozione di un insieme di fatti e circostanze che hanno incontrato la mia vita nell’ultimo periodo.

Da mamma sento sempre di più il dovere di educare i miei figli, maschio e femmina, ad essere liberi ed indipendenti da tutti i condizionamenti che io ed i miei genitori abbiamo avuto, scardinare le dinamiche tipiche del patriarcato a partire dall’interno della nostra famiglia. Sembra logico ma non lo è.

Personalmente ci ho messo molto tempo a raggiungere una certa consapevolezza e mi rendo conto che donne più mature di me hanno impiegato ancora più tempo… ecco, vorrei che a mia figlia non ne occorresse affatto.

Parimenti non voglio che mio figlio resti ingabbiato in stereotipi da “macho” che gli impediscano di esprimere i propri sentimenti, la propria personalità in maniera sincera, avere sempre rispetto delle persone soprattutto di quelle che vorrà amare con la responsabilità di chi sa sviluppare sentimenti adulti e non sentirsi sempre emotivamente dipendente.

Sempre più mi sembra di assistere alla presa di coscienza tardiva di donne che scoprono, finalmente, di bastare a se stesse e uomini che, rimasti soli, si rendono improvvisamente conto di essere stati investiti di potere per diritto di nascita e di non averlo “guadagnato sul campo” come molte delle loro consorti, facendo così crollare qualunque tipo di fiducia in se stessi. Di qui separazioni e sofferenze se non addirittura eventi tragici come i femminicidi ed infanticidi… nessun altro è responsabile della tua felicità e per nessuno vale la pena rinunciare alla propria.

Se davvero ci sentissimo pari, di conseguenza non esisterebbero disparità di genere, soprusi nei rapporti interpersonali, violenze in famiglia, pretese sul posto di lavoro, frustrazioni rispetto al proprio ruolo di genitore. Purtroppo siamo cresciuti (uomini e donne) completamente imbevuti ed educati ad una certa visione del mondo che ci condiziona anche inconsapevolmente.

Ora che la status quo sta scricchiolando e che, grazie alle battaglia di tante donne, abbiamo raggiunto, almeno sulla carta, una certa indipendenza, dobbiamo far capire agli uomini quanto è bello e profittevole vivere da pari, alle ragazze che non devono essere vittime o crocerossine e ai ragazzi che non devono cercare schiave o seconde mamme ma alleate, che i figli possono essere cresciuti insieme con amore, che si può essere entrambe genitori presenti perché è con l’esempio che possiamo migliorare il futuro dei nostri figli e dei figli dei nostri figli, quali che siano le loro scelte di vita.

…ora che ho dato sfogo alla mia pancia in stile Greta Thunberg del femminismo, vi auguro di vivere una vita felice… uno accanto all’altra

L’emancipazione delle principesse Disney: dalla donna di casa all’eroina

Ospitiamo un pezzo di Katiuscia Zambrella

Ne sono passati di anni dalla prima rappresentazione della donna “per eccellenza”, la principessa, sognata nel secolo scorso con il rossetto rosso, le ciglia allungate, cipria bianca e gote con il blush rosa, come voleva la moda dell’epoca, a partire dagli anni ’30, dopo la caduta della Borsa di Wall Street, quando il tacco alto e il punto vita tornarono ad essere protagonisti. Biancaneve, incarnava oltre che, a conferma del nome, il modello estetico, anche e soprattutto l’ideale dell’uomo di quei tempi (ma si discosta davvero dall’attuale?) e cioè la perfetta padrona di casa: puliva, rassettava, accudente verso i nanetti, riservata, basti pensare alla prima reazione davanti al principe azzurro, quando fuggì via spaventata; ingenua e romantica, fa entrare una “vecchina” sconosciuta e mangia la mela offerta, viene salvata da un primo eroe, il cacciatore, che ha pietà di lei e, anziché il suo cuore, porta alla regina malvagia che voleva disfarsi della sua bellezza, il cuore di un cervo. Fino all’arrivo del principe che ancora una volta, da eroe, l’avrebbe difesa e portata via con sé, per amarla per sempre.

La situazione pare peggiorare quando fece il suo ingresso sullo schermo Cenerentola (o Cinderella), la vittima sacrificale di un’intera famiglia: la madre muore, il padre si risposa con un’arpìa che punta al suo patrimonio, le figlie – nonché sorellastre – sono viziate ed egocentriche oltre misura, poco dotate di acume e tantomeno di bellezza, naturalmente invidiose della sorellastra bella come il sole anche solo con uno straccio addosso e un filo di trucco. Si potrebbe dire che la poverina, arrivata in scena negli anni ’50, impersonificava un po’ tutte le figlie del sistema gerarchico del periodo, dove gli adulti imponevano un rigido modello educativo, poco incline al confronto, arbitri di ciò che era giusto e sbagliato, dove i figli dovevano solo obbedire, senza proferire parola. Ma…c’è un ma. Proprio come accade alle “mosche bianche”, qualcosa di stra-ordinario avviene. La schiava-principessa, si oppone al volere dell’adulto, la matrigna, andando di nascosto al ballo (sarà per questo che da piccola era la mia preferita?), disobbedendo di fatto ai suoi ordini. È vero, anche in questo caso, l’emblema della felicità è rappresentato dal Principe che la prende in sposa e lotta per trovarla ed esimerla da un esempio di vita poco dignitosa, ma attenzione, questa volta è lei che sceglie. Anche di sposarlo.

Con Aurora (o Rosaspina la sua seconda identità) ne “La bella addormentata nel bosco”, concluso da Disney pochi anni dopo, lo scenario è pressappoco simile. La principessa si ribella al volere delle zie-fate madrine che l’avevano tenuta nascosta fino ai suoi 18 anni (per via di un maleficio che le avrebbe procurato un sonno profondo e la caduta dell’impero, salvo il bacio d’amore di un Principe), maleficio del cui nemico però Aurora non sapeva nulla, in quanto super protetta dall’ambiente familiare. In un certo senso abbiamo un’involuzione, un’immagine femminile più sprovveduta e ingenua, che attende solo di essere amata. Così come il nostro Principe, che questa volta non si limiterà a “portarla via” dal pericolo, ma si batterà per lei contro un enorme drago, amplificando l’ideale dell’eroe maschile.

Ma la svolta arriva con Ariel, la Sirenetta. Per la prima volta è una donna a scegliere di lottare per la sua libertà, litigando col padre, abbandonando il suo mondo e – addirittura – salvare lei, il suo principe. Uscito alla fine degli anni ’80, possiamo considerarlo come riflesso della rivolta femminista degli anni ’70?

Passiamo a Belle, la bella intellettuale. Siamo negli anni ’90, in cui comincia a paventarsi l’idea di “moglie trofeo”, ovvero l’uomo potente doveva essere accompagnato da una donna dai canoni estetici molto alti, indipendentemente dal suo cervello. E, in questo caso Disney vuole lanciare un messaggio in contrapposizione alle aspettative sociali del momento che suggerisce: la donna è anche altro. È lei, Belle, la prima donna emancipata Disney. Ambiziosa, sogna una vita migliore, studia, ha una grande intelligenza emotiva, è sicura di sé e delle sue potenzialità. Non si accontenta. E la sua testardaggine verrà in qualche modo premiata, dietro alla Bestia, c’è, prima che un bel principe, un uomo rispettoso e attento ai suoi bisogni.

Jasmine, pochi anni dopo, nel 1992, incarnerà l’emblema della donna sensuale e carismatica, apparentemente sicura di sé, che, suo malgrado, cede alle avance di un (ladro travestito da) gentlemen (storia già sentita?). Il lieto fine però ci dice che sarà lei, a scegliere di far diventare Principe il ladruncolo, ribellandosi anch’essa a ciò che chiedeva la tradizione.

Pressappoco alla stessa stregua di Ariel e Belle sarà Pochaontas, a metà anni Novanta, che scapperà dalla sua tribù per fuggire in America alla ricerca del suo amato.

Mentre con Mulan, di origini cantonesi e di estrazione sociale bassissima, a fine anni Novanta, si invade e destabilizza un altro territorio stereotipato; la donna orientale con l’ideale della geisha, sceglie di diventare, a dispetto di quello che la sua cultura e la sua famiglia le impone, quello che vuol essere realmente: un soldato. Travestendosi (però) da uomo e affrontando tutti i dodici anni di guerra senza che nessuno mai se ne accorgesse. Ma il vero colpo di scena è un altro: questa volta non è la storia d’amore a lieto fine, ad occupare la scena, in quanto, come osservato dal critico cinematografico Andy Klein: “Mulan non sta aspettando che il suo principe un giorno venga; quando arriva, avendola conosciuta principalmente come un uomo, e avendo imparato ad ammirarla per le sue qualità più profonde, la storia d’amore è muta e sottile. Durante tutto il film lavorano costantemente per aiutarsi a vicenda a trasformarsi in versioni migliori e più vere di sé stessi al fine di raggiungere il loro vero potenziale”.

Sulle scie di Belle, Jasmine, Pochaontas e Mulan, in fatto di indipendenza, con maggiore incisività, arriverà Tiana, nel 2009, umile domestica di New Orleans al servizio del sindaco, la quale, contro ogni aspettativa, si rifiuterà di baciare il principe divenuto ranocchio per poter esaudire il suo sogno: aprire un grande ristorante, portando avanti, insieme al suo, anche il desiderio del padre defunto, a cui era affezionata e dal quale aveva ereditato creatività e ottimismo. The Oprah Magazine ha definito l’arrivo di una principessa Disney nera un “superamento della barriera, atteso da tempo”

Ed eccoci arrivate alla mia seconda principessa preferita (forse per narrazione pregna di molteplici significati): Rapunzel (o Raperonzolo). Uscita nel vicino 2010, la storia è quella di una principessa dotata dalla nascita di una chioma “magica” contenente il segreto della giovinezza, rapita da una strega malvagia e narcisista, che mal sopportava l’idea di invecchiare. La strega, spacciandosi per la madre della piccola, cresce la bella principessa in una torre senza porte e senza scale, nascosta in mezzo al bosco. I capelli di Rapunzel, mai tagliati, raggiungono lunghezze chilometriche che la presunta madre utilizza per entrare e uscire dalla torre. Compiuta la maggior età, la figlia devota, abituata a crearsi il suo mondo personale dentro ad un unico ambiente fatto di sogni e di illustrazioni colorate sui muri oltre che ad un unico amico (non a caso) rappresentato da un piccolo camaleonte, chiede di poter uscire per vedere le stelle. Qui si apre un altro interessante scenario: la “madre”, evidentemente manipolatrice, fa credere a Rapunzel che il mondo è pieno di mostri e gente cattiva, pronta ad ucciderla pur di rubarle il suo dono. Entra in scena il nostro nuovo modello maschile, un altro ladruncolo, Finn, stavolta, emblema del maschio Alpha, l’uomo che non deve chiedere mai, affascinante, vanitoso e pieno di sé, che, in fuga da altri furfanti speranzosi di condividere il bottino come concordato, scopre la torre e conosce la ragazza. Rapunzel riesce a difendersi e a mettere a terra l’uomo con una pentola e, al suo risveglio, lo obbligherà a portarla fuori dalla torre in cambio della refurtiva (senza essere al corrente che si trattasse proprio della sua corona, rubata a palazzo reale ai genitori addolorati, che non avevano mai smesso di sperare che fosse ancora viva). Il patto va a buon fine, i due passano una giornata fatta di nuove conoscenze ed esperienze mai fatte, per la principessa, fintanto che la strega non se ne accorge. A quel punto Rapunzel viene ulteriormente tradita da quella che pensava fosse sua madre, la quale, prima di trovarla, stringe un accordo con i due malavitosi, promettendogli la corona in cambio del rapimento del ragazzo. Quando la strega la troverà, le farà credere che lui sia stato consenziente, preferendo la corona a lei e riportandola a casa. Quindi? Il lieto fine? Il lieto fine c’è, ma non per mano di Finn, o meglio, Rapunzel si renderà conto da sola, di chi è (quella che pensa essere) sua madre, grazie al suo intuito e, soprattutto, grazie all’apertura al “mondo” esperita in quell’unico giorno di libertà. E, una volta tanto, l’uomo, dapprima materialista, per amore di quella donna coraggiosa, sceglie di salvare lei e non i suoi preziosi capelli, restituendo alla strega malvagia tutti gli anni rubati, riducendola in cenere e baciando la comune mortale che si rivelerà poi essere, quasi come “premio alle buone intenzioni”, la principessa cercata dal suo Regno.

Merida in “Ribelle” (2012), ribelle per definizione, adolescente “tipo” che non segue nulla delle regole impartite dalla regina madre, una principessa che non si sente tale, non ha un portamento delicato e neppure un carattere fragile, che ama cavalcare, scoccare frecce, combattere e non rinuncerebbe mai alle proprie giornate di svago prendendo marito, arriverà al punto di trasformare per sbaglio la madre in un orso. Tra mille imprevisti, poi, con l’aiuto dei fratellini pestiferi (che aveva fino a quel momento sottovalutato) e rendendosi conto dell’importanza che il ruolo della madre ricopriva per lei, iniziò con la stessa un rapporto fatto di fiducia e di comprensione, di protezione reciproca, arrivando finalmente a capirsi l’un l’altra e a liberandosi da un ruolo “forzato”, la madre tornerà ad essere più spensierata e la figlia più responsabile. Un racconto tutto al femminile, quindi, nessun principe azzurro.

E arriviamo alle due tanto amate principesse di Frozen (2013), Anna e Elsa. Adattata dalla fiaba di Hans Christian Andersen, “La regina delle nevi”, ci parla di due sorelle, quella dotata ma emarginata perché non in grado di controllare i suoi poteri e quella nella “norma”, che conduce una vita abitudinaria ma senza la compagnia dell’amata sorella. Anche qui in una storia tutta al femminile, di solidarietà (a differenza della fiaba originale che ci parlava di un rapporto più antagonista) dove vince l’intuito femminile e l’atto d’amore sopra ogni cosa, in quanto, Elsa rinuncerà ai suoi poteri pur di salvare la sorella dalla morte. A quest’ultima rimarrà l’uomo un po’ rude ma onesto conosciuto durante le ricerche della sorella fuggita e all’altra, la consapevolezza di quali sono i veri valori a cui non può rinunciare, l’amore fraterno e una vita vissuta appieno.

Ma il premio va a Vaiana, che in “Oceania”, nel 2016, acquisisce a pieno titolo i tratti dell’eroina. Vaiana è una giovane ragazza intraprendente e insieme saggia, destinata a diventare il capo villaggio dell’isola di Motunui. Da piccola viene scelta dall’Oceano per ritrovare il cuore dell’isola madre Te Fiti, rubato mille anni prima dal semidio Maui, perciò, dopo la morte dell’amata nonna, Vaiana intraprende un’audace missione per salvare il suo popolo. Sì, ma come ci riesce? Grazie al viaggio, metafora del percorso di vita. Perché solo quando, convinta del sapere tramandatole dalla sua famiglia, affronta il semidio Maui, scopre altre verità possibili, scopre che non tutto è come appare e capisce chi vuole essere realmente. Il suo scopo quindi, non sarà più solo salvare l’isola, ma, soprattutto, fare da mediatrice tra le credenze popolari radicate e le verità umane (o semiumane) soggettive, aiutando Maui e se stessa, portando alla riflessione e alla redenzione tutti coloro che hanno contribuito alla deprivazione dell’isola, insegnando l’arte del perdono, del rispetto, del non giudizio. Perché, come diceva Jorge Luis Borges, «Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza».