RICOMINCIAMENTI – intervista a Edy Santamaria

Gennaio è, per antonomasia, il mese dei buoni propositi e terreno fertile per nuovi progetti e quest’anno mi trova a riflettere su quante volte le donne, per necessità o per volontà, debbano periodicamente rinnovarsi e ricominciare da capo: sia questo un vero e proprio cambiamento esteriore (vita, lavoro, famiglia, casa…) o solo interiore, profondo, nascosto ma decisivo.

Ho deciso di parlarne con Edy Santamaria, amica, artista e campionessa olimpionica di ricominciamenti!

Tu come ti sei ricominciata nella vita?

“Ho ricominciato molte volte nella mia vita partendo da quando ero ancora ragazzina, volendo prima reagire ai cambiamenti fisici che mi mettevano a disagio e che mi hanno fatto cadere nella trappola dei disturbi alimentari, poi volendo allontanarmi da una vita familiare che mi stava stretta: ho preso decisioni drastiche e importanti di cui ho anche pagato le conseguenze ma di cui mi sono assunta la responsabilità. Sempre accompagnata dall’anoressia, mi sono allontanata da un matrimonio fallito in partenza con la mia bimba piccolissima, trovando, anche per lei, sempre la forza e il modo di ricominciare, spostandomi continuamente e lavorando sodo”

“VITA” – ritratto carbothello su carta pastelmat

L’arte che ruolo ha avuto in tutto questo?

“L’arte è stata il filo conduttore della mia vita, passione nata nello studio di mio zio Mimì, la musica di sottofondo e la mia valvola di sfogo, il mio diario segreto dall’età di 11 anni. Abbiamo tutti bisogno di esprimere emozioni, soprattutto quelle più forti, ed io ho sempre usato la tela preferibilmente di grandi dimensioni e dipinta ad olio, in cui riversavo soprattutto le emozioni negative, per questo motivo per la maggior parte, i miei quadri non sono decisamente “da arredo” dato il loro contenuto forte. Tempo fa fondai l’associazione “Artesenzaconfini” con la quale ho organizzato mostre ed eventi. Oggi sono mamma di tre splendidi figli e anche nonna, continuo a formarmi sulla tecnica pittorica ed ho di recente avuto l’abilitazione come arteterapeuta proseguendo all’interno del mio studio, con i laboratori di disegno e pittura sia per bambini che per adulti.

Tanti tuoi quadri sono legati al mondo femminile…cosa ami delle donne?

“Il mio primo dipinto ad olio rappresentava una donna e da sempre le donne sono al centro della mia ricerca artistica e sociale: ho sempre tenuto molto a portare testimonianza del mio vissuto, anche di violenza di cui porto le conseguenze fisiche che mi impediscono da tempo di realizzare le grandi tele che amavo e promuovo movimenti ed associazioni in particolare per la prevenzione della violenza sulle donne, perché la consapevolezza è la prima vera arma contro questo fenomeno, sto lavorando anche ad un nuovo progetto di volontariato proprio su queste tematiche di cui potremo parlare in futuro.

Delle donne amo la forza, che spesso si nasconde tra le lacrime, ma che sempre ci spinge a trovare altre strade e non lasciarci mai a terra nonostante i duri colpi della vita”

Opera presentata al Teatro dell’albero di San Lorenzo al mare in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne a Novembre 2022

Se volete seguire Edy la trovate su Facebook cercate A casa di Edy (labottegadiedy@gmail.com)

25 NOVEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE E DI GENERE.

in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne e di genere ho intervistato Antonio Lidonnici.

Il suo libro mi è stato consigliato da un’amica, parla di violenza nella coppia ed è tratto da una storia vera. E’ una tematica forte che non è semplice affrontare ma Antonio è riuscito a farlo con una scrittura senza fronzoli, lineare, scevra da qualsiasi sensazionalismo, per certi versi cruda ma terribilmente efficace.

Ci è sembrato giusto in questo giorno, dedicargli questo spazio, in modo che le sue parole, il suo libro possano toccare anche voi.

Buongiorno Antonio grazie per il tuo tempo e per la disponibilità.

Allora siamo qui per parlare del tuo libro d’esordio L’OMBRA DEL GLICINE edito da Edizioni Effetto ma prima vorrei parlare di te. Ti autodefinisci come uno scrittore incallito ci vuoi spiegare perchè?

Buongiorno. Intanto vorrei ringraziare te e tutto il gruppo per questo spazio. Mi ritengo “incallito” nel senso di “irriducibile”: quando non hai il dono della sintesi e sei anche discretamente impulsivo, l’unico modo per non perdersi in voli pindarici rimane mettere per iscritto ciò che si vuole dire.

Come potresti definire il tuo stile?

Qualcuno l’ha definito “arido”, e devo dire che mi ci ritrovo perfettamente; non mi piace entrare troppo nell’intimità dei miei personaggi, nei loro pensieri. Al contrario, preferisco accompagnare il lettore sulla soglia e lasciare che sia lui a decidere se e quanto entrare nei mondi che racconto. Dal punto di vista tecnico, uno dei miei riferimenti è infatti Carver, un autore capace di essere tagliente e preciso come un bisturi.

Hai dichiarato che se dovessi incontrare un autore nei carruggi sceglieresti Donato Carrisi, ti sei ispirato anche a lui per scrivere il tuo romanzo?

Donato Carrisi rappresenta, insieme a Carver e Edgar Allan Poe, il mondo a cui faccio riferimento quando scrivo. Per rispondere alla tua domanda, ti dirò che sì, nei punti in cui mi serviva tenere alta la tensione, una ripassatina ai testi di Carrisi l’ho fatta, anche più di una volta.

Arriviamo all’OMBRA DEL GLICINE, so che il tuo libro è ispirato a una storia vera, narra la relazione tra Claudia, una giovane di 26 anni che attraversa un periodo di profonda crisi personale dopo il suicidio del padre e Alfio un carismatico, affascinante ma misterioso quarantenne. La scelta di ambientarlo a Genova è frutto del tuo amore per il nostro territorio o è stata determinata da altri fattori?

La scelta è stata determinata da più di un fattore.

Prima di tutto, perché la conformazione del territorio genovese (e ligure), a mio parere, si presta meglio di qualsiasi altra città italiana a determinate narrazioni: la velocità con cui si passa dal mare ai monti, dalle vie dello shopping ai carruggi maleodoranti, è una caratteristica squisitamente ligure. Non fai in tempo ad abituarti alla bellezza di Palazzo Ducale che vieni “risucchiato” dalle ombre che risalgono dal vicolo accanto. Ecco, questa commistione di bellezza e mistero, di luci e ombre, secondo me rendono Genova la città ideale per ambientarci un romanzo come il mio, o un giallo in generale.

In secondo luogo, Genova è una città portuale, e come tutte le città di questo tipo, sono fortemente contaminate da tutte le culture che vi transitano e, secondo me, anche i genovesi stessi in qualche modo vengono sfiorati da questi cambiamenti.

In ultimo, ma non per importanza, perché la storia di Claudia affonda le sue radici proprio nel territorio ligure: in questo senso, la scelta è dipesa dalla volontà di ripagare il mio debito di riconoscenza nei confronti della protagonista, e della città stessa, che mi hanno permesso di mettere gli occhi e le mani su questa vicenda.

La tua scrittura è stata definita cinematografica, e concordo in pieno con questa definizione, il tuo stile è caratterizzato da descrizioni di luoghi, persone e dialoghi estremamente scorrevoli, proprio come un filmato, mi ha colpito in particolare la tua capacità di essere estremamente descrittivo senza però cadere in descrizioni dettagliate, minuziose e lunghe delle scene che narri, che comunque ti obbligano, da lettore a visualizzare mentalmente quello che leggi. Alcuni passaggi sono molto crudi e proprio in virtù di questa tua dote il lettore è costretto a vedere nella mente scene che potrebbero essere disturbanti. La violenza secondo te purtroppo va anche descritta oltre che raccontata per arrivare davvero a toccare l’animo dei lettori?

Credo che, soprattutto quando si parla di violenza di genere, i fatti vadano narrati nella loro integrità. E questo non “sciacallaggio”, ma perché la sottovalutazione del tema credo fortemente dipenda proprio da una sorta di edulcorazione dei fatti, che spesso conduce poi a una distorsione degli accadimenti per sfociare in un ridimensionamento delle responsabilità. La famosa frase “… ma lei se l’è cercata” è frutto di una distorsione nella percezione dei fatti da parte di chi legge. Per questo motivo, io ho scelto di riportare determinate scene nella loro integrità, ovviamente con la piena approvazione della protagonista. Mettere nero su bianco gli accadimenti, come hai detto bene tu, “costringe” il lettore a vedere la scena, a vedere il quadro in ogni sua pennellata, senza interpretazioni da parte di esperti, o sedicenti tali.

Per essere efficaci e “arrivare” al lettore, non servono tante parole, ma parole giuste.

Torniamo alla tua storia, la relazione tra i protagonisti  parte come una favola, Alfio è un principe azzurro che porta Claudia in un castello dorato fatto di attenzioni, regali, amore, viaggi e sorprese ma che si trasforma in breve tempo in una prigione di isolamento, manipolazione, coercizione e infine violenza fisica. Quanto di quello che descrivi è realmente successo e quanto invece è frutto della tua immaginazione?

L’evoluzione (o involuzione) del personaggio di Claudia viene esposta così per come è avvenuta; quindi, i fatti riportati soprattutto nella prima parte del romanzo, sono assolutamente reali, con la sola eccezione di nomi e luoghi specifici che sono stati sostituiti per evitare l’identificazione della protagonista. C’è un punto, che io definisco cruciale all’interno della vicenda, che segna un po’ il confine tra realtà e fantasia. Oltre quel fatto, che non rivelerò nemmeno sotto tortura, dico sempre che finisce il “come è andata” e inizia il “come Claudia vorrebbe che proseguisse la sua storia”: ricordo, infatti, che la reale vicenda non si è ancora, purtroppo, conclusa del tutto.

In particolare il personaggio di Alfio mi ha davvero impressionato. E’ come trovarsi di fronte a una di quelle installazioni di artisti moderni che usano i materiali più disparati per costruire un disegno, l’immagine non ti è chiara fino a quando l’ultimo elemento non viene messo al suo posto. Alfio è così, capisci che quello che vedi nasconde altro ma fino all’ultima pennellata non sai davvero cosa hai di fronte…

La spirale della violenza in cui trascina Claudia è da manuale, lui vittima di violenza assistita da parte del padre sulla madre a sua volta diventa un uomo violento, circuisce le sue vittime con fascino e carisma, le umilia, per poi tornare ad essere il principe azzurro e a seguire di nuovo il carnefice, questo lo definiamo il ciclo della violenza ed è comune a molte storie delle donne che arrivano nei centri antiviolenza.

Sai, molte donne non lasciano, non denunciano anche perché sperano di cambiare questi uomini con il loro amore per poi venirne inevitabilmente schiacciate. Pertanto ti chiedo, tu che conosci il tuo personaggio, Alfio, sarebbe recuperabile? Un uomo come Alfio secondo te può essere riabilitato?

Potrei risponderti con un’altra domanda: secondo te il narcisismo è curabile? Perché di questo si parla quando ci troviamo davanti Alfio. Fisicamente ho avuto un solo contatto con Alfio, a distanza di sicurezza, e ti posso garantire che le movenze, gli sguardi, tutto ciò che fa lascia trasparire un senso di onnipotenza che, secondo me, non è curabile se non con un cambio di vita radicale. Questo genere di soggetti, per quanto ho potuto studiare durante la stesura del romanzo, e per quello che poi ho visto concretamente, si nutre del senso di soggezione che riesce a indurre in chi gli sta intorno. Alfio è in quel modo non solo con Claudia, ma con chiunque si trovi a gravitare, anche solo per un breve periodo, nella sua orbita. In certi passaggi che mi sono stati raccontati da Claudia, ho provato addirittura un senso di pena per lui, perché ti rendi conto di avere a che fare con un soggetto che sa rapportarsi solo in un modo, non ha alternative: ti attrae con benevolenza e condivisione (apparente) di ogni suo spazio vitale, hai quasi l’impressione di avere a che fare con un soggetto che vuole solo godersi la vita senza troppi pensieri. Ogni minimo pensiero riguardo a qualche aspetto poco chiaro della sua vita viene immediatamente coperto da distrazioni, regali, elementi positivi che lo riabilitano all’istante. Ed è proprio in quell’istante, in quello stesso istante, che lui sta prendendo da te tutto ciò che può, e quando te ne rendi conto ti ha già buttato via come un limone spremuto.

In un’altra intervista, ti ho sentito dire parlando di quello che i lettori possano pensare di Claudia: “dopo un pò ti viene da chiederti perché questa ragazza non si sveglia, perché non si da fare? Il punto è che ti ci devi trovare prima di capire”. Generalmente la violenza del partner suscita appunto nelle donne vittime un senso di impotenza che viene definito impotenza appresa, eppure tu definisci Claudia come CAPACE DI ADATTARSI E IMPULSIVA…come riesci ad inquadrare questa cosa?

Credo abbia a che fare con la “sindrome da crocerossina”.

Claudia rifiuta l’idea di non poter cambiare Alfio, e la sua impotenza viene espressa attraverso un continuo adattarsi e riadattarsi alle “voglie” del suo uomo: di fatto, non sta scoprendo nessuna nuova parte di sé, sta solo perdendo tutto ciò che ha. Eppure, la sua impulsività la spingono a rilanciare sempre, ogni volta che Alfio alza l’asticella, lei trova le energie per provare a saltare, nonostante la catena che porta legata al collo sia ogni volta leggermente più pesante. Se potessi usare un neologismo, parlerei di “impotenza attiva”.

Questo processo, tuttavia, è impossibile da comprendere dall’esterno: è vero, diverse persone mi hanno scritto dicendomi “faccio fatica a crederci, le sarebbe bastato andare a denunciare”.

La mia risposta è stata sempre la stessa: “a lei è mai successo qualcosa di simile?”

Lascio immaginare a te la risposta.

Claudia arriva da una famiglia della Genova bene, con uno stile di vita socialmente “protetto”, un’istruzione superiore universitaria, ma il suicidio del padre la porta in una situazione di fragilità, terreno fertile per l’incontro con Alfio. Questo per dire che la violenza non ha classe sociale e nessuno di noi deve mai pensare che nostra sorella, madre, figlia, cugina o collega ne sia immune. Come ti sei sentito mentre raccontavi la sua storia, che potrebbe davvero essere la storia di una donna qualunque, anche vicino a te?

Male, parecchio male, proprio per questo motivo. Ho una sorella più piccola che mi definisce “la sua roccia”, e non puoi immaginare quante volte ho pensato a lei durante la stesura del romanzo.

Conoscevo, purtroppo, il fenomeno, ma non avevo massa di tutta una serie di aspetti che mai avrei potuto considerare se non mi ci fossi avvicinato così tanto.

La violenza, quella di cui parlano in televisione, è solo la punta di un iceberg che è quasi trasparente: non vedi niente finché non urti quella punta, e quando questo accade, quasi sempre ti rendi conto che stavi già affondando.

E tu, da esterno, ti rendo conto che magari hai notato un profilo strano, un atteggiamento che non torna, ma non vuoi invadere la privacy dell’altra persona; quindi, stai lì a guardare facendoti delle domande che non hanno risposta.

Spesso sento mia sorella, e altrettanto spesso cerco di “carpire” i suoi stati d’animo, di intravedere se davanti a lei ci sono minacce più o meno nascoste.

Hai dichiarato in un’altra intervista di aver avuto l’intento con il tuo libro di dar voce alle donne vittime di violenza, spesso in silenzio, col volto coperto, in mezzo ai salotti tv pieni di uomini esperti che non permettono loro di esprimersi. Mi hai anche accennato di avere avuto difficoltà nell’approcciarti con i centri antiviolenza in quanto sei uomo, vuoi spiegarmi meglio cosa è successo?

“Un uomo non può scrivere certe cose”, questa è stata la risposta che mi sono ritrovato nella mia casella di posta o che mi è stata detta al telefono da referenti di centri antiviolenza anche di un certo spessore. E questa è stata la risposta più cordiale, perché da qualche centro mi sono anche sentito dire che non avrebbero dato spazio al mio libro per “arricchire un uomo”.

Io penso che questa equazione semplicistica secondo cui uomo = cattivo e donna = vittima faccia male proprio alle donne, e ritengo che l’argomento debba essere affrontato da e con le figure che spesso rivestono la parte del carnefice. La “vittima” sa benissimo cosa è successo, non ha bisogno di qualcuno che glielo ricordi, le basta consapevolezza che la schiaccia al suolo quando si sveglia una mattina e si rende conto che il suo castello è solo una baracca in mezzo al deserto. Purtroppo, però, non riesco a far passare questo messaggio, come se ci fosse una classificazione per cui la donna è la vittima e va aiutata da altre donne, mentre l’uomo può essere solo il carnefice. Potrà sembrare pesante, ma mi sono sentito “discriminato”.

Ma chi, meglio di un uomo, può provare a spiegare il comportamento di un altro uomo?

Se vuoi creare la cassaforte più sicura al mondo, devi farla costruire al ladro migliore del mondo: io la penso così.

E’ di pochi giorni fa la notizia di un ragazzo abusato da un altro uomo che non ha ricevuto supporto dai centri antiviolenza in quanto non esistono protocolli ad hoc per un uomo,

Quindi, secondo te la disparità di genere in realtà causa preconcetti anche negli ambienti che cercano di combatterla?

L’ho letta anche io, e sono rimasto amareggiato, proprio perché fa il paio con la domanda precedente. Finché si continua a fare del sessismo si sposta il focus sul vero problema, che è la violenza, fisica e psicologica. Non aiutare un uomo perché il protocollo non lo prevede significa creare un precedente pericoloso per cui, un domani, esisterà la violenza di genere di serie A e quella di serie B. Non si potrà comprendere l’entità di un problema come questo se si continua a tenere alta l’attenzione sulla vittima e non sul carnefice.

La vecchia favola di Esopo del lupo e della pecora che bevono l’acqua del fiume dovrebbe averci insegnato che nelle storie c’è sempre un flusso da seguire, c’è un monte e una valle, eppure…

Cosa vorresti dire alle Claudia che non ti hanno raccontato la loro storia?

Di non tollerare, perché tollerare è solo un altro modo per giustificare. Direi loro di parlarne, trasformando la vergogna che ti assale in energia per darti la spinta e risalire. Direi loro che non c’è niente di male nel toccare il fondo, perché tutti noi abbiamo bisogno, a volte, di capire quanto riusciamo a sprofondare prima di riemergere.

E gli direi che l’amore è una mano aperta.

Per una carezza, per asciugare una lacrima, ma mai per uno schiaffo.

DONNE CHE PENSANO – Intervista ad Irene Renei

In questo periodo denso di cambiamenti, preoccupazioni e movimenti sociali che vedono protagonista l’universo femminile, ho voluto fare quattro chiacchere con Irene Renei, autrice del blog “Donne che pensano“, per ascoltare il suo punto di vista sempre lucido sulla realtà.

Ma parliamo prima di te Irene, chi sei?

Difficile parlare di me stessa. Mettere nero su bianco una vita è un affare complesso.

La percezione di me stessa è cambiata con gli anni. Ora, a cinquanta, forse ( e dico forse) credo di sapere quante donne ho dentro di me.

Più di tutto credo di essere madre. Madre del mondo. Dei miei figli, sì, ma anche dei miei cani, gatti, madre delle mie amiche, madre di mia madre.

Ho questo forte senso di accudimento che mi appaga come poco altro.

Cosa ti ha spinto a cominciare a scrivere?

Credo che questa sorta di onde di bene che sento dentro siano state uno dei motivi principali che mi hanno spinto a scrivere.

Avevo fortemente bisogno di condividere, di divulgare, in un certo senso, sentimenti buoni.

I limiti di questa parte materna sono tanti però.

In primis mi hanno sempre impedito di realizzarmi nel lavoro.

Il tempo lontano dai miei figli, il continuo delegare agli altri la loro quotidianità, in una società che trascura la famiglia e i suoi bisogni, mi ha sempre imbrigliato in una sorta di infelicità.

Altro grande limite, anche questo in parte frutto di una società patriarcale che chiede alla donna il sangue, è sempre stato il voler essere iper performante. Avere la presunzione di voler fare tutto al massimo delle mie capacità: sul lavoro, in casa, con i figli.

Questo mi ha sfiancato mentalmente, mi ha succhiato energie per molti anni e quando le energie davvero mi sarebbero servite, ne avevo finito la scorta.

La svolta nel 2019, in piena adolescenza di mia figlia, la mia secondogenita.

Nel suo primo anno di superiori e di furiosa ribellione adolescenziale sono crollata, pervasa da un senso di inadeguatezza grande come un oceano che mi vedeva affogare.

Mi sono guardata allo specchio e in un moto di sopravvivenza ed egoismo ho deciso di pensare a me stessa, dopo quanti anni? Non ricordo. Da tantissimi, troppi anni non pensavo solo a me.

Mi sono appoggiata ad una psicologa che ha accolto e coccolato il mio mare di punti interrogativi sulla vita e come una bambina che impara a camminare ho provato a lasciare la sua mano e a muovere i primi passi.

Ho iniziato a fare volontariato in una comunità di accoglienza per madri vittime di violenza. Madri e figli con valigie piene di dolori e storie pesanti.

Io iniziato a prendermi cura di loro. Almeno credevo. Loro in realtà curavano me.

Mi infondevano vitamine di forza e voglia di lanciarmi contro le ingiustizie sociali, di proteggere il ruolo delle donne, di tutte, dalle più fragili a quelle che apparentemente hanno una vita normale.

“Normale” come la vita di tutte noi…

Un gran casino in cui troppo spesso nessuno ci aiuta.

Ho aperto una pagina Facebook per il bisogno impellente di svuotare cuore e pensieri e capire se tutto questo mio sentire era solo mio o poteva essere condiviso.

Ad oggi sulla mia pagina “Donne che pensano” siamo 34. 000 anime a darci il buongiorno.

Dalla comunità sono uscita fisicamente per colpa del lockdown di Marzo 2020 ma mi sono portata dietro, anzi affianco, per mano, una madre con i suoi tre figli. Tecnicamente è un affido diurno.

Noi gestiamo la vita dei bambini durante il giorno e li portiamo da lei la sera quando rientra dal lavoro.

In realtà ti prendi cura di tutti, anche di lei.

Nel frattempo mia figlia, mio figlio e mio marito avevano iniziato a seguirmi all’interno di quella casa comunità che pare avere i mattoni impastati di dolore e amore, una magia strana che ti tiene incollata a loro e non ti permette più di far finta di niente.

Il mio libro è permeato delle loro storie, della mia storia, di tutti i sentimenti che ci portiamo dietro, noi donne tutte, nella vita normale e di fronte ai problemi.

Ho un grande progetto, nel libro ne parlo.

Voglio creare una libreria che sia spazio per queste donne messe al margine da una società che ti sprona a denunciare e poi spesso ti abbandona.

Voglio vederle tra i libri, ad aiutarmi ad organizzare eventi, voglio vederle in un ruolo dignitoso, masticare parole nuove che permettano loro un giorno di saper leggere con attenzione un contratto che potranno trovarsi a firmare.

Voglio che non si sentano sole e che imparino a capire quanto valore hanno e quante poche colpe.

Credo fortemente nella potenza delle donne quando trovano la chiave per unirsi. Credo che insieme si possano fare grandi cose e sradicare l’enorme quercia di questa società patriarcale, così radicata anche in noi da tenerci nell’ombra.

Spero di trascinare con me in questo progetto donne di ogni classe sociale, perché ognuna col suo bagaglio è un tassello prezioso.

Spero di far cadere una goccia in ogni anima che leggerà il mio libro [“Dieci tazze a colazione” ndr], che porti a capire che se qualcosa chiediamo a questa società, dobbiamo prima essere in grado di dare. Lo Stato siamo noi.

Io, a questo dare, ho dato la forma dell’affido familiare che ritengo un’emergenza assoluta.

Servono nuclei familiari disposti ad accogliere, a sostenere, a fare da ponte nel tempo in cui la famiglia di origine ha bisogno di risanarsi. Difficile spiegare in poche parole.

Più dai e più ti rendi conto che puoi fare di più, che serve di più.

Ma quando il fine è così grande la fatica non la senti e ti perdoni gli errori lungo la strada.

Diventi soprattutto esempio inconsapevole per i tuoi figli.

Almeno, io così ho ritrovato la strada nel cuore di mia figlia che stava girovagando per strade sbagliate.

Ho pensato a me e sono improvvisamente diventata un faro che ha illuminato la sua strada.

I figli non hanno bisogno di tempo, o quanto meno non solo e non di tutto il tempo, come pensavo quando il lavoro mi teneva fuori giornate intere. I figli hanno bisogno di input, di esempi e di amore.

In questo momento così difficile per la società quale può essere il ruolo delle donne per la pace?

Si chiede sempre tanto alle donne, forse troppo. E forse non c’è neanche bisogno di chiedere perché le donne fanno.

Nei mesi scorsi abbiamo assistito all’arrivo delle donne ucraine con i loro figli, un borsone sulle spalle e una vita e affetti lasciati al di là del confine.

Oggi assistiamo con dolore a ciò che succede in Iran, dopo la morte di Masha Amini… le donne ci provano a cambiare il mondo ma devono iniziare sempre dal basso perché il nostro è ancora il mondo degli uomini. Cosa possiamo fare per la pace se siamo sempre fuori dalle stanze in cui si decide? Possiamo fare poco e quel poco lo facciamo già e dobbiamo continuare a farlo.

Credo nelle nuove generazioni e non parlo solo delle giovani donne, ma anche dei nuovi uomini.

Credo che siano molto diversi da noi, che abbiano molto da insegnarci e che forse, nonostante il disastro che gli stiamo lasciando tra le mani, possano creare un mondo umanamente migliore.

Credo si debba insegnare ai nostri figli il valore dell’accoglienza e dell’uguaglianza. Alle nostre figlie, il potente valore della sorellanza, il dovere morale della condivisione dei problemi della donna accanto.

La pace si costruisce insieme, uomini e donne, con la volontà di entrambi.

Altrimenti andremo poco lontano

Irene Renei autrice del blog “Donne che pensano” e di “Dieci tazze a colazione” ed. AltreVoci